giovedì 29 aprile 2010

Non rimpiango, non lacrimo, non chiamo, di Marino Magliani e Vincenzo Pardini (Transeuropa)

Ci sono terre di confine che non sono altro che il paradigma dei confini che ci attraversano. E questi confini non solo ci attraversano, ma segnano le nostre vite in modo indelebile. Noi viviamo del nostro passato. Noi viviamo nel giudizio degli altri. E il nostro passato e il giudizio degli altri plasmano quello che siamo, in un presente duro, carnale, difficile, ineluttabile.
Tra Toscana e Liguria. Tra colline dove si consuma la follia di un'epica del vivere quotidiano, all'insegna di una violenza accettata, ed entroterra rocciosi dove la banalità dello scorrere del tempo (e delle vite) nasconde lo stillicidio terribile dell'incomprensione e della durezza dei rapporti tra le persone.
Una resa dei conti. Una resa dei conti totalizzante. Senza la possibilità di sottrarvisi.
Le nostre vite sono destinate a seguire un percorso delimitato da un destino che è già scritto in ognuna delle nostre azioni. Anche la più banale. Anche la più insignificante.
Forse l'unica possibilità per una temporanea salvezza, per un armistizio, non certo per una pace duratura, è la fuga, o meglio, il ritorno a ciò che di noi è rimasto.
Perché ti chiedevi che vita era? Per questo te ne sei andato? Il fatto che non avesse mai combinato niente, che da giovane si fosse risparmiato la fatica e ora ricevesse un sussidio per sopravvivere senza far niente - come se il mondo glielo chiedesse, non far niente Emiliano Timonti, senti il rumore della vita e non far niente - non significava che a far qualcosa non ci avesse mai pensato, ci pensava sempre, non faceva altro…
Si rilassò sul sedile e si rispose. Certo, che era vita, tutto era vita. Abbassò le palpebre, era vita finché su quel manifesto da morto un giorno non ci fosse scritto il suo nome. Conobbe il mondo, fece poco, tornò alle colline, ne danno il triste annuncio ecc.
Un libro.
Non rimpiango, non lacrimo, non chiamo, di Marino Magliani e Vincenzo Pardini (Transeuropa).

martedì 27 aprile 2010

Borges, Giap e La nausea

C'è un peregrinare tra le parole scritte che ci porta a capire che il libro è più importante dell'autore. Leggo giap! Storie per attraversare il deserto, del collettivo Wu Ming. E qui scopro che il comune sentire delle nostre considerazioni può, a volte, trovare punti di incontro inaspettati, che si riconoscono, pur nella naturale mancanza di conoscenza reciproca.
La storia, le storie sono alla base della nostra insopprimibile esigenza di raccontare e di raccontarci. Le storie appartengono a tutti. Chi le narra è soltanto un tramite, soltanto un cantastorie, soltanto un aedo che ha il compito di raccogliere e di spargere. L'opera è sempre più importante dell'autore.
Borges! Ancora Borges! Ritorna in me costantemente la voce del grande argentino. Vado a braccio; parafraso con affanno, forse; cerco di ricordare le tracce che si affastellano nella mia memoria. Per Borges le storie, le trame sono tre o quattro: un omicidio, un amore, una guerra e un profeta tradito dai suoi discepoli. Chi scrive, chi narra, chi racconta altro non fa che ricostruire e riportare in un eterno circolo queste storie, queste trame.
All'autore rimane la grande e inaspettata scoperta di se stesso.
Cito le ultime frasi de La nausea, di Sartre: Un libro. Un romanzo. E ci sarebbe gente che leggerebbe questo romanzo e direbbe: è Antonio Roquentin che l'ha scritto (...) e penserebbe alla mia vita (...) come a qualcosa di prezioso e di semileggendario. Un libro. Ma naturalmente da principio ciò non sarebbe che un lavoro noioso e stanchevole, non m'impedirebbe d'esistere né di sentire che esisto. Ma verrebbe pure un momento in cui il libro sarebbe scritto, sarebbe dietro di me e credo che un po' della sua luce cadrebbe sul mio passato. Allora, forse, attraverso di esso, potrei ricordare la mia vita senza ripugnanza. (...) E arriverei - al passato, soltanto al passato - ad accettare me stesso.
Due libri.
giap! Storie per attraversare il deserto, di Wu Ming (Einaudi).
La nausea, di Jean-Paul Sartre (Einaudi).

lunedì 26 aprile 2010

Rapsodia delle terre basse, di Massimo Bubola (Gallucci)

Se la nostra vita, prigioniera del tempo, può andare verso un'unica direzione, le storie, per nostra fortuna (e forse per nostra salvezza) possono andare ovunque vogliono.
E' dalla nostra memoria, è dal nostro ricordo, è anche dalle nostre paure che nasce l'irrinunciabile desiderio di raccontare e di raccontarci. Ma questo desiderio nasce anche dai luoghi, dalle strade, dalle case, dalle pietre. E i luoghi, le strade, le case, le pietre diventano (o forse sono) gli specchi inevitabili delle nostre anime. E le nostre anime (le nostre vite) sono indissolubilmente legate, nel bene e nel male, a questi luoghi, a queste strade, a queste case, a queste pietre. Noi stessi siamo indissolubilmente legati alle nostre radici, che ci piaccia o no.
Vedi, per formazione sono abituato a cercare spiegazione nei libri, non nei ricordi. Per te il mondo è così giovane che il nonno di tuo nonno potrebbe essere stato il primo uomo. Le tue radici nel passato sono più vive e profonde. Partono dalla memoria e vanno giù verso il basso, attarverso i tuoi piedi fino a penetrare nel fondo di queste campagne. E sotto il suolo trovano i laghi sotterranei della memoria collettiva da cui tutte le fontane e le sorgenti attingono.
Massimo Bubola racconta una storia. Massimo Bubola parla a noi e parla di noi. Come una lieve poesia che, proprio per la sua levità, è la più adatta a sollevare i macigni più pesanti del nostro non detto.
Nella mitologia degli aborigeni australiani, il mondo continuerà finché qualcuno racconterà una storia. Quando le storie finiranno, finirà anche il mondo.
Sono sicuro che questo, Massimo Bubola lo sa.
Un libro.
Rapsodia delle terre basse, di Massimo Bubola (Gallucci).

domenica 25 aprile 2010

Cisco Pike, Enrico Ghezzi e tutti i Settanta

Mi capita raramente di scrivere un post in diretta. Il blog non è come facebook o twitter o friendfeed, dove ci butti i tuoi haiku ad effetto, che ti nascono sul momento. Sul blog i post te li devi meditare, ti devi informare. Non puoi scrivere a casaccio un paio di frasi ad effetto per essere laicato da qualcuno che condivide con te quel momento.
Però. C'è sempre un però. L'ho già scritto qui. Seguo Enrico Ghezzi da una vita. E ho sviluppato un'insana passione per i film americani degli anni Settanta. Non lo so il perché. Sarà per la fotografia così limpida. Sarà per il sole (quanto sole c'è in quei film). Sarà per le ragazze dai capelli lunghi, dagli occhi scuri e dalle belle labbra che invitano a chissà che cosa. Non lo so. So soltanto che a Fuori Orario sto vedendo Cisco Pike. E mi sembra di vedere Nashville, e mi sembra di vedere Fragole e sangue, e mi sembra di vedere Cinque pezzi facili, e mi sembra di vedere L'ultima corvè, e mi sembra di vedere L'ultimo buscadero, e mi sembra di vedere Bersaglio di notte.
Non lo so. Io coi Settanta c'entro poco. Ci facevo le elementari. O forse c'entro anche troppo. Non lo so.
Il maledetto tempo passa. E passa da brutto. Forse in quel sole giallo e limpido che fa da sfondo a quei film ci ritrovo lo stesso sole che d'estate trasforma la mia terra in una Bible belt.
Sognare non costa niente. Specialmente di notte.

venerdì 23 aprile 2010

Oggi, io sono armeno

La nostra storia, quella eroica dei re e imperatori e quella immobile delle fatiche quotidiane di noi tutti, si intersecano sempre. E spesso, quando si incontrano, non fanno altro che far sgorgare un immenso fiume di sangue.
Oggi è il 24 aprile. Oggi è il Metz Yeghèrn. Oggi si ricorda il Grande Male.
Nella notte tra il 23 e il 24 aprile iniziò lo sterminio di un popolo. Sterminio di un popolo è quasi una frase burocratica. Sterminio di un popolo vuol dire però sangue, dolore infinito, morte. Siamo capaci di farci un'idea di tutto ciò? Non credo. Persi nelle nostre mollezze ci danniamo per il nulla, per quel nulla che la nostra società fa apparire essenziale, quando essenziale non è. C'è solo un antidoto. Il ricordo.
Oggi si ricorda il genocidio degli Armeni.
Oggi, io sono armeno.
Due libri.
Gli Armeni, di Gabriella Uluhogian, Il Mulino.
Il genocidio degli Armeni, di Marcello Flores, Il Mulino.

mercoledì 21 aprile 2010

Perché no, di Cristina Zagaria (Perdisa Pop)

Francesco corre e la strada parla, parlano le radio, le moto, i carrozzini trascinati da mamme bambine. Il rumore di sottofondo ha un volume costante. (...) Parla la strada e Francesco si carica delle voci, che rimbombano nella sua testa, che sono il sottofondo costante della sua vita.
Sì. Voci. Voci. Voci, voci e voci. Voci che rimbalzano sui muri. Voci che rimbalzano per le vie. Voci che che rimbalzano nei pensieri. Non un romanzo corale. Ma un romanzo di voci. Di voci violente. Di voci rassegnate. Di voci che resistono. Di voci che si perdono.
Un'educazione alla violenza. Un'educazione alla violenza che nasce dalla rassegnazione, dalla banalità del male. Un'educazione alla violenza che permea le strade, i muri, le pietre. Una violenza così, tanto per fare, tanto per essere considerati uomini.
E poi perché, quando arrivi a diciotto anni, hai già una carriera, un curriculum, non sei l'ultimo arrivato.
Cristina Zagaria, non dà giudizi. Cristina Zagaria non si mette nel mezzo del coro di voci del suo romanzo. Cristina Zagaria lo fa parlare e ne annota la disperazione, l'orrore, la voglia di andare avanti comunque.
Negli anni Ottanta uscì un bel film sulla realtà napoletana: Blues metropolitano, di Salvatore Piscicelli.
Leggendo Perché no mi è tornato in mente. Perché no riprende i ritmi di Blues metropolitano, ma il tempo passa e la realtà si incarognisce. Blues metropolitano oggi va riletto alla luce di Gomorra. Il tempo è purtroppo passato e la realtà (la banalità della realtà) è diventata semplicemente agghiacciante.
Rido e non m'importa niente di quello che succederà.
Rido con lo stomaco, con la voce della gola che striscia tra i denti, ruvida,
Rido.
L'adolescente timido ora ha completato la sua educazione alla violenza. Ha superato i suoi maestri.
Non c'è più speranza.
Forse.
Un libro.
Perché no, di Cristina Zagaria (Perdisa Pop).

lunedì 19 aprile 2010

L'amore alla fine dell'amore, di Vito Bruno (elliot)

Questo è un libro di quelli che non puoi lasciare a metà. Non puoi dire che lo finirai dopo. Questo è un libro di quelli che non puoi leggere facendo finta di niente. Questo è un libro di quelli che ti segnano. Hai un bel dire che di libri ne hai letti tanti. Hai un bel dire che farai appello alla tua freddezza, alla tua smagata conoscenza delle tante storie che la parola scritta ti ha donato. No! In queste pagine, in questa storia, tra le parole di questa storia, finirai con il trovarti faccia a faccia con la tua stessa vita, con le tue stesse speranze, con le tue stesse convinzioni. Questo libro è come uno specchio attraverso il quale sarai costretto a vedere. E, alla fine, riflesso in quello specchio vedrai la tua immagine, vedrai le immagini di tutto ciò che ti circonda, vedrai il coraggio che c'è voluto a scriverlo. Sì. Perché solo un uomo coraggioso poteva scrivere questo libro. Solo un uomo coraggioso poteva guardare fino in fondo dentro a se stesso e soprattutto dentro alle sabbie mobili nelle quali un distratto pensiero comune ha impantanato tutta una società. Questo libro è un potente urlo di dolore contro la banalizzazione dei sentimenti. Questo libro è un messaggio chiaro e forte contro il conformismo dell'anticonformismo. Questo libro è una radiografia di una collettività che passa il suo tempo a buttare via se stessa. Una collettività che reclama il più totale e amorale permissivismo nei comportamenti privati e che, nel contempo, affida la difesa di questo stesso permissivismo a istituzioni sempre più autoritarie. Una collettività schizoide. Una collettività senza futuro. Una collettività che segue ormai una morale (e forse anche una religione) customizzata, neanche fosse una Electra Glide dove, a seconda di quello che ti fa più comodo, metti un sellino in pelle qua e una modanatura cromata là.
Siamo tutti vittime. Siamo tutti carnefici.
Hemingway diceva che le ferite dell'anima non guariscono mai. Che Dio, se c'è, possa fare in modo che non sia così.
Un libro.
L'amore alla fine dell'amore, di Vito Bruno (elliot).

domenica 18 aprile 2010

C'è sempre un "Bar Baby"

C'è sempre un "Bar Baby". Da qualche parte. In mezzo ad un paese. Sui lati di uno stradone. Perso in mezzo a quattro case, tra una statale e una periferia.
Capita di ritornare da qualche luogo. Capita di tornare a qualche cosa.
-Desidera?-
-Mi dà un decaffeinato ristretto.-
La ragazza al banco è giovane e carina. I capelli scuri e lo sguardo che sorride.
Bar Baby. Perlinato alle pareti. Stanza di tre metri per quattro. Bancone. Cassa. Frigo dei gelati.
Alla parete un manifesto. Festa della Croce Azzurra.
Tre tavoli e nove sedie.
Due uomini giocano a carte. In silenzio.
Capelli bianchi e rughe profonde. Sguardi persi nel troppo vino bevuto. Bevuto negli anni. Gli anni che puoi contare nei sochi delle rughe.
Due giovani magrebini stanno in piedi. Non parlano. Stanno appoggiati alla parete. Non guardano da nessuna parte.
-Vuole del latte?-
-No, grazie.-
Bevo in fretta.
-Quanto?-
Non mi giro, ma li sento. Sento i due uomini che giocano a carte. Sento i due giovani magrebini che stanno in silenzio e che non guardano da nessuna parte.
-Buonasera.-
-Buonasera.-
La ragazza adesso ride. Parla al cellulare con il moroso.
Esco in fretta. Giusto il tempo di attraversare la strada deserta e risalire in auto.
C'è sempre un Bar Baby.
Da qualche parte.

sabato 17 aprile 2010

Times goes by (quindici anni dopo Q)

Sì, lo so anch'io: il tempo passa. Ho avuto il modo di impararlo. Prima non m'importava. Adesso sì. E non voglio chiedermi il perché. Non voglio saperlo. Perché la risposta la conosco. La so. E quando le risposte già le conosciamo, è meglio non insistere.
Ho sempre ammirato il collettivo Wu Ming. Ho sempre invidiato la loro innegabile capacità nell'organizzare la loro narrazione e la loro presenza mediatica. Ho letto quasi tutte le loro opere. Mi piace il loro stile. Mi piace la loro contaminazione continua fra letterature, fra generi, fra narrazione e storicismo.
Anni fa lessi Q. Da poco ho finito di leggere Altai. Le vicende di questo romanzo accadono quindici anni dopo Q. I personaggi sono invecchiati. Gli ideali sono invecchiati. Le illusioni sono invecchiate. Niente può essere più come prima. Alexandre Dumas dopo i Tre moschettieri scrisse Vent'anni dopo. Tutti sono più o meno cambiati, forse imbolsiti. Senz'altro hanno abbandonato il loro entusiasmo. Da combattenti si sono trasformati in uomini attenti al loro tornaconto. Tutti gli uomini di Smiley completa la trilogia de La talpa. Anche qui gli agenti del circus, cioè del servizio segreto britannico, si sono dati a vite banali, segnate dal tempo. Hanno lavori normali. Hanno lasciato ormai il servizio attivo. Niente è più come prima. Niente può essere più come prima.
Il tempo passa.
E' triste quando passa per noi.
E' ancora più triste quando passa per i personaggi dei romanzi.

venerdì 16 aprile 2010

Corso Salani

Non esiste mai un solo modo per raccontare una storia. Forse esiste invece un momento adatto per ascoltare una storia.
Un sabato. Una domenica. Due notti.
Da sempre seguo Enrico Ghezzi. Non ho particolari motivazioni per farlo. Mi piace quello che dice. Mi piacciono i film che proprone.
Un sabato. Una domenica. Due notti. Pasqua.
La realtà e l'immaginazione da sempre si confondono. L'una è l'inevitabile specchio dell'altra. Corso Salani svolge un cinema di confine. Di confine tra la realtà e l'immaginazione. Di confine tra le divisioni drammatiche, ma anche banali, dei nostri animi e dei nostri sentimenti.
Le ragazze dei suoi film sono carine e attente, angeliche e terribili. Aperte nella loro semplicità e insondabili nel loro mistero inconoscibile. Corso Salani si mette in gioco in prima persona. Le intervista. Le fa parlare. In una struttura ibrida di documentario e di finzione. Ne è attratto. E ne è attratto come ogni uomo può esserlo dal mistero tenero e destabilizzante della donna.
Alberto è il nome dell'alter ego cinematografico di Salani. Una volta, nel corso delle riprese di un suo film, uno degli attori si rivolse a lui chiamandolo per errore Corso invece di Alberto. E l'errore fu volutamente lasciato. Sottolineatura magica e programmatica di quel labile confine tra realtà e immaginazione che Salani ama frequentare.
Ma una volta il confine si rompe. Tragicamente. Con dolore.
In Palabras Salani mette in scena la storia d'amore fra lui e la protagonista. Storia d'amore che finisce, così come tante storie d'amore finiscono.
Un flusso di coscienza torrenziale, un infinito stream of consciousness, recitato con reiterato dolore, mentre scorrono le immagini della protagonista, che continua la sua vita, ci rende tutti partecipi della nostra solitudine. Di quella solitudine che tutti abbiamo provato nel sentire l'infinita mancanza della nostra amata che, pur senza di noi, continuerà il suo percorso nel tempo, dove il posto per noi non c'è più.
Due film. Tutti e due di Corso Salani.
Palabras (2003).
Confini d'Europa (2006/2007).

mercoledì 14 aprile 2010

Edmondo Berselli, Carlo Formenti e l'invadenza di internet

Che poi, io, Edmondo Berselli lo seguivo anche su facebook. Poi Edmondo Berselli è morto e sulla sua pagina di facebook poi, a vedere, ci sono anche andato. E tutti gli lasciavano i loro commenti, come quando si va dalla vedova ai funerali e si dice: mi dispiace. E non lo so se poi tutta questa roba qua è una bella cosa. Carlo Formenti se lo era già chiesto una volta: ma quando si muore, che succede ai nostri profili su internet? Che succede alla nostra presenza virtuale? E che succede? Niente succede. Succede che te ne stai lì, come quelle tombe che prima si riempiono di fiori e poi, a poco a poco, a mano a mano che il tempo passa e anche chi ti conosce muore, vengono dimenticate e diventano piccoli monumenti grigi all'oblio. A quell'oblio che ingoia tutto e tutti.
Forse non cambia mai niente. Forse.

lunedì 12 aprile 2010

La signora del caviale, di Michele Marziani (Cult Editore)

La scrittura è un viaggio e la parola è il suo bagaglio. Scriviamo per narrare agli altri (e forse ancor più a noi stessi) l'inesorabile trascorrere del tempo. E la sua narrazione diviene lentamente e magicamente strumento quasi sciamanico di accettazione. Ecco, il raccontare e il raccontarci rappresentano quel nostro particolare mantra che ci permette di ammaestrare il tempo. Certo, un racconto, un romanzo, una poesia persino, rappresentano modi differenti (ma uniti nel fine) di accettare, di ammaestrare, di domare lo scorrere del tempo. E accettare, ammaestrare, domare lo scorrere del tempo significa anche riuscire a venirne a patti, significa riuscire a firmare, se non una pace, almeno un armistizio.
La signora del caviale è un romanzo sullo scorrere del tempo. Sul tempo della giovinezza. Sul tempo della guerra. Sul tempo della crescita. La nostra formazione passa attraverso il passare del tempo. Persino l'amore, persino l'odio non possono sottrarsi al passare del tempo. Che li cambia. Che ci cambia.
Di pagine in vita mia ne ho lette. Ma le ultime tredici pagine di questo libro sono tra le più belle che abbia mai incontrato.
Avrei voluto scriverle io.
Un libro.
La signora del caviale, di Michele Marziani (Cult Editore).

domenica 11 aprile 2010

Un mio post, Malcolm McLaren e Radio Popolare

Ci sono coincidenze che a volte uniscono i nostri pensieri. Punti che si accendono con un sottile bagliore e si incontrano per un attimo fuggevole nella nebbia della nostre vite. Sentieri digitali che inconsapevolmente si cercano e si trovano. José Saramago definisce internet il mare infinito. Ed è proprio in questo mare infinito che una bottiglia, portatrice di un piccolo messaggio, può arrivare, spinta dalle correnti infinite, a congiungersi con altre idee, con altre espressività.
Ho scritto un post sulla morte di Malcolm Mclaren. L'ho idealmente infilato nella bottiglia di questo mio blog e ho lasciato che prendesse la sua strada tra le onde senza fine dei messaggi.
Radio Popolare l'ha raccolto e lo ha citato e letto. Proprio qui.
Un grazie agli amici di Alaska sulla cui isola è approdata la bottiglia con il mio messaggio.

venerdì 9 aprile 2010

Malcolm McLaren è morto

Cioè, tutti abbiamo avuto i nostri idoli; letterari e soprattutto musicali. E gli idoli non possono morire. Non devono morire. Perché quando muoiono se ne vanno anche un bel po' delle nostre illusioni. D'accordo, stupide quanto vuoi, ma senza illusioni mi dici dove te ne vai? Mi dici come cazzo fai a tirare avanti tutto il santo giorno tra le cose SERIE che la scuola prima e il lavoro poi ti hanno costretto e ti costringono a fare?
E c'era questa trasmissione in tv. Ed era una trasmissione strana. Andava in onda sul secondo canale. E si chiamava Odeon. E rispetto a tutte le minchiate di oggi, ai costanti ed inutili presenzialismi di tronisti dementi e sgallettate zoccole, lì si faceva cultura. Sì, si faceva cultura. Perché quando le idee prendono la forma della musica o della parola scritta, bèh, la cultura sta proprio lì.
Io, Malcolm McLaren l'ho visto una sera, guardando proprio Odeon. Certo, forse facevo ancora le elementari, certo non giravo con la cresta e gli spilli da balia infilati nei lobi delle orecchie. Però, che la musica e la parola scritta servissero a colmare il nostro bisogno di raccontare e di raccontarci, io l'ho cominciato a capire proprio allora. Guardando in tv un gruppo di tizi che sputavano alle telecamere e storpiavano God save the Queen.
Malcolm McLaren è morto. Aveva 64 anni e aveva creato i Sex Pistols.

giovedì 8 aprile 2010

Alla maniera di Ellroy

Quattro pastiglie di dexedrina e un caffè. Per rimanere svegli.
-Devi farmi un lavoretto. Uno dei tuoi.-
Parcheggio. Papponi con panama colorati. Puttanelle che si insultano. Puzzo di liquori e benzina. Una pattuglia di poliziotti irlandesi fila via sbadigliando.
-Sei solo uno spione da quattro soldi, ma hai le palle.-
Quattro pastiglie di dexedrina e un caffè. Per rimanere svegli.
-Piazza le tue cimici e poi fammi rapporto. Fra tre giorni.-
Le mani tremano. Il foro nel muro non si vede. La polvere d'intonaco cade dalla sua parte. Bene.
-Voglio sapere tutto. E non provare a fregarmi.-
Le mani tremano. Ma il circuito è sistemato.
Valium. Per calmarsi un po'. Per provare a dormire.
Domani, tre aspirine sbriciolate nel caffè. Per svegliarsi.
-Voglio anche le foto. Hai capito! Le foto! Per una spia come te, per un fottuto guardone come te, è un gioco da ragazzi.-
Le foto!
Le mani tremano. Prende la macchina fotografica. Quartiere residenziale. Quartiere di artisti e scrittori del cazzo. A quest'ora nessuno in giro.
Dexedrina. Ancora. Per rimanere svegli. Per andare avanti. Ancora.
Nausea. Conato. Una lattina di Pepsi. Tutta d'un fiato. Per non vomitare.
-Niente è come sembra. Ricordalo, spione fottuto.-
Nessuna finestra è un segreto per lui. Camminare attorno alla casa. Con calma.
Punta l'obiettivo. Scatta. Un gioco da ragazzi.
La stanza. Trasformata il laboratorio. Puoi ascoltare e sviluppare le foto. Tutto sul posto. A meno di un metro da quello che devi sorvegliare.
Le mani tremano.Valium. Poi caffè. Poi Pepsi. Per non vomitare.
Tra un po' il bersaglio rientra. Prova le cuffie. Ronzio. Scariche elettrostatiche. Bene.
Dexedrina. Ancora una.
Sviluppa le foto. L'immagine nasce lentamente. Una stanza. Una libreria. Un tavolino. Sul tavolino ci sono tre libri.
Tre libri. Tutti di James Ellroy. Tutti editi da Mondadori.
Americam tabloid, Sei pezzi da mille, Il sangue è randagio.

domenica 4 aprile 2010

Garage Olimpo

Immagini che affiorano sulla riva dei pensieri. Portate come relitti sulle spiagge della memoria. Non seguo il comandamento delle novità. Seguo soltanto le mie ossessioni. Sono loro che mi portano, o meglio, mi costringono, alla reiterazione della parola scritta.
Come una guida indiana insegue un'orma, io inseguo un'immagine.
Notte. Una ripresa dall'alto. Silenzio. Silenzio assordante. File di luci in movimento. Serpente infinito di auto che percorre le strade di una Buenos Aires piena di vita. Ma in silenzio. Immagine che arriva ogni dieci o venti minuti, a troncare il corso della storia. Intervallo tranquillo e felice, nel mezzo della orribile banalità del male.
E' quel silenzio che mi opprime. Quella immagine di vita che non sa o non vuole sapere. E' come un incubo. Le urla di orrore tragicamente ovattate. La vittima grida il suo terrore senza che nessuno possa o voglia sentirla.
E' la banalità del male. E' la banalità dell'orrore. Siamo tutti vittime. Forse siamo tutti anche potenziali carnefici. E' sufficiente un nonnulla. Forse.
Il confine che è in noi tra il bene e il male è varcabile in ogni istante. Lo possiamo fare. Tutti.
Ecco, l'orrore.
Un film.
Garage Olimpo, di Marco Bechis, 1999.

venerdì 2 aprile 2010

Il mare a quadretti è tornato

Ci sono cose che ci accompagnano da sempre. Eppure sembrano sempre nuove. I secondi, i minuti, le ore, i giorni ci chiudono in una serie di circostanze sempre uguali. La prigione delle nostre abitudini altro non è se non la ricerca di una sicurezza. Una sicurezza che lentamente ci porta al compimento di quello che siamo stati, o forse, di quello che abbiamo, senza riuscirci, cercato di essere.
A sinistra il Monterosa. A destra l'Oltrepò. Sono i limiti, angusti forse, che chiudono l'orizzonte apparentemente infinito della pianura. A sinistra il Monterosa. A destra l'Oltrepò. Sempre. In una ripetizione costante di coordinate che, da geografiche, presto diventano colonne d'Ercole del nostro essere.
La colonna sonora ipnotica di una radio, mi accompagna nel mio viaggio. Quasi a narcotizzare, con la banalità del nulla, quello che dovrei sentire, o meglio, comprendere.
Poi, un abbaglio improvviso. Come una lama di luce che segna la periferia del mio occhio. Guardo meglio, quasi ad accertarmi della tranquillità del quotidiano che è comunque, nel suo ripresentarsi, rivoluzione e, contemporaneamente, certezza.
Una piccola e insignificante area geometrica, che dal bruno invernale della terra si trasforma in specchio di cielo, ad annunciare un verde presto perso nella futura afa estiva.
Il mare a quadretti è tornato. Certo. Siamo ad aprile. Si allagano le risaie. Presto tutto diventerà uno specchio di cielo. Presto tutto si trasformerà in una parentesi azzurra.
Il mare a quadretti è tornato. Tra qualche mese sentiremo l'odore del riso.