lunedì 31 maggio 2010

Da domani on line il nuovo e-book gratuito di Manni

Da domani, martedì 1 giugno, e per tutto il mese di giugno, sarà gratuitamente scaricabile dal sito di Manni Editori (www.mannieditori.it) il nuovo e-book.
La casa editrice salentina - prima in Italia a sperimentare il download gratuito di intere opere letterarie - questo mese punta su un romanzo di un giovane autore:
Angelo Ricci
Notte di nebbia in pianura
pp. 120, 2008

Il libro
Come una fotografia che improvvisamente si anima, in uno spazio e in un tempo preciso, scorrono storie di vita in presa diretta con personaggi che agiscono e interagiscono in una disperata e desolata assenza di motivazioni, nel trionfo della banalità.

Angelo Ricci è nato nel 1964 a Novara. Vive tra il Piemonte e la Lombardia, in Lomellina. Dopo gli studi  a Pavia e inseguendo la sua forte passione letteraria, affianca al lavoro di avvocato quello di operatore culturale.
E' tra i fondatori dei premi letterari Tracce di Territorio e Tracce di Territorio - Pubblicare la Storia.
Questo è il suo blog: http://nottedinebbiainpianura.blogspot.com

Beirut, i love you, di Zena El Khalil (Donzelli)

Non è possibile non innamorarsi di Zena El Khalil. Della sua gioia di vivere. Dei suoi eccessi. Dei suoi pianti. Dei suoi sentimenti. Della sua tristezza. Del suo coraggio. Della sua tenerezza. Dei suoi vestiti da maschiaccio. Delle sue diete. Delle sue Dr. Martens, ornate di margherite disegnate con il pennarello bianco.
Ogni vita è un viaggio. Ogni viaggio ha una meta. Ogni meta è una sfida. Zena El Khalil accetta la sua personalissima sfida. Con ingenuità, con coraggio, con la voglia di vedere e di sapere.
I suoi eccessi, la sua sfrenatezza, i suoi sentimenti, i suoi sensi sono il bagaglio che porta con sé nella sua sfida contro un passato pieno di morte. Il ritorno a Beirut ha il preciso significato di una dichiarazione di guerra. Ma di una dichiarazione di guerra fatta alla morte. Ed è una dichiarazione di guerra fatta con tutta la coraggiosa tenerezza della quale può essere portatrice una giovane donna.
La passione per l'arte, la voglia di darsi al divertimento più sfrenato, il sesso diventano tutti quanti strumenti per un'affermazione di vita. Quello che potrebbe sembrare, nella nostra realtà, il banale sballo di una ragazzina annoiata e viziata, diventa, nei meandri di una Beirut che presenta, nelle pietre come nelle anime, le ferite non rimarginate di una guerra terribile, un grido coraggioso. Quello che, a prima vista, potrebbe sembrare il diario disperato di una ragazza è in realtà la cronaca di una donna di coraggio non comune.
Un libro.
Beirut, i love you, di Zena El Khalil (Donzelli).

sabato 29 maggio 2010

E se ne è andato anche Dennis Hopper

Non lo so, ma qui è un continuo scrivere di miti e di eroi che se ne vanno. Forse è così che funziona. Forse è così che deve funzionare.
Sì, d'accordo. Eravamo tutti troppo piccoli. Si facevano le elementari. Anzi, forse si andava ancora all'asilo. Ma per quelli come me, tutta la storia degli anni Settanta (i film e la musica e tutto il resto) è stata la molla che poi ci ha spinto a guardarci attorno. Qui non è questione di padri o di fratelli maggiori. No. Qui è tutta una questione di gente che scriveva libri, che faceva film e scriveva canzoni. E quei libri li scriveva con la vita, quei film li girava con la passione, quelle canzoni le componeva con gli occhi. Ecco. In tutta questa storia dei '70 noi non ci siamo mai stati. Ma abbiamo letto quei libri. Abbiamo visto quei film. Abbiamo ascoltato quelle canzoni. E ancora li leggiamo, li vediamo, le ascoltiamo. Poi, dopo, quando siamo diventati grandi, abbiamo capito che la vita era tutta un'altra storia. Ma quei libri, quei film, quelle canzoni ci sono rimaste dentro. E non c'è ebook che tenga. Non c'è i-pad che serva. A noi tutto quel materiale è rimasto immagazzinato nella nostra anima. E tanto basta.
Arrivederci, Dennis.

Ya salam!, di Najwa Barakat (Epoché)


Una beffa. Una stupefacente, tragicomica, sanguinosa, orribile beffa. La guerra è una terribile beffa. La morte è una terribile beffa. Anche la vita può essere una terribile beffa. Una beffa che coinvolgerà tutti i protagonisti di questo romanzo. Una beffa che nasce da lontano. Una beffa che si snoda, con lenta maestria, sul palcoscenico di una Beirut confusa, calda, appiccicosa. Una beffa che trapassa le vite di chi, su questo palcoscenico, si muove. E si muove con la pretesa, del tutto ingiustificata, di credersi protagonista, quando, in realtà, non riesce nemmeno ad intravedere i fili coi quali il destino lo fa muovere a suo piacimento.
Ex miliziani che un tempo erano titolari del diritto di vita e di morte. Ora, con la fine della guerra civile, divenuti macchiette che tentano di sbarcare il lunario con attività del tutto assurde. Il ricordo di un giovane, sadico torturatore e capo di una milizia di quartiere, ora defunto, perseguita le menti e le vite di queste divinità decadute, trasformate ora in stupidi comprimari di una vita banale. Una quarantenne, prigioniera della sua mancanza di bellezza. Diventata, negli anni, donna fanatica, dal carattere impossibile, dispotica. Anche lei persa nella pania di una vita confusa. Un paio di ex miliziani che sembrano usciti da Trainspotting. Una donna vecchia e malata. Madre del giovane torturatore defunto. Che vive travolta dal suo delirio. Tutti quanti vittime di una vita che si snoda a fatica tra ostacoli e mancanza di prospettive. Nelle guerre più furiose non si fanno prigionieri. A volte non se ne fanno nemmeno nella banalità della vita quotidiana.
Un libro.
Ya salam!, di Najwa Barakat (Epoché).

venerdì 28 maggio 2010

Beirut!

Una foto in bianco e nero. Ma non quel bianco e nero ben delimitato, alla Robert Capa. Una foto in bianco e nero sgranata, confusa, con le figure dai contorni che si disperdono tra il grigio delle case colpite dalle artiglierie. Si intravede un automezzo. Forse un camion, forse un blindato. L'automezzo è fermo. Se ne vede solo la parte posteriore. Tre uomini armati di kalaschnikov. Dalle uniformi strane. Non è un esercito. E' una milizia. E' una guerra civile. I tre ridono, puntando le canne delle armi verso un corpo. E' legato al retro dell'automezzo. E' stato trascinato. E' pieno di sangue. E' morto.
La foto è del 1976. E' una delle prime della guerra civile libanese.
Beirut! Città paradigma. Città pretesto. Città simbolo. Città immaginario. Beirut è tutto e il contrario di tutto. Beirut è cristiana. Beirut è islamica. Beirut è drusa. Beirut è armena. A Beirut donne velate camminano accanto a stupende ragazze dai lunghi capelli scuri.
Inconfondibile è la pietra di una chiesa. Onnipresente è il profilo di una moschea. Confuse, anzi, infuse tra palazzi di acciaio e vetro, tra bazar e negozi che nemmeno a Beverly Hills. I RayBan scuri coprono gli occhi vellutati delle ragazze dalla pelle ambrata. Giacche fumo di Londra vestono le t-shirt nere di ex falangisti diventati buttafuori nella movida.
Una città che reitera se stessa in una costante ricostruzione. Una città che passa dai palazzi alle macerie (la prima città dove si fece uso di artiglierie nell'abitato) e dalle macerie ai grattacieli. Una città dove belle donne in bikini prendono il sole sulla corniche, circondate dagli alberghi di lusso ricostruiti con i soldi del petrolio. Gli stessi alberghi che erano i covi preferiti dai cecchini e dai torturatori.
Una città che nasconde a fatica, sotto una patina di lustrini, il sangue e la morte. Una città dove i ricordi e le vite degli ex miliziani, diventati poveri falliti, non più utili a nessuna fazione dopo lo scoppio della pace, sembrano usciti da una scenetta tragicomica alla Trainspotting. Una città dove le donne (quelle che non vivono in un ambiente integralista) si sono fatte carico, quasi chiamate da un inconscio passaparola, del compito di reagire al fanatismo. Con l'arte, con la musica, con la lettura. Ma anche con il pianto, con lo sballo, con il sesso. Un'adolescenza prolungata, perseguita coscientemente, simbolo, forse confuso, forse eccessivo e sbagliato, di una reazione al dolore, alla violenza. Una reazione che usa l'eccesso dei sensi per seppellire e sconfiggere gli eccessi della morte.
Tre libri.
Ya Salam!, di Najwa Barakat  (Epoché).
Beirut, i love you, di Zena El Khalil (Donzelli).
Beirut, di Samir Kassir (Einaudi).

mercoledì 26 maggio 2010

Martin Gardner

Il mio liceo stava in un palazzo tutto grigio. Però, chissà perché, le porte erano rosse. Anche i banchi erano rossi. Anche la porta della biblioteca era rossa. Ma le pareti della biblioteca avevano enormi finestre. E la luce che entrava dalle finestre faceva dimenticare tutto il grigio.
Il mio liceo era un liceo scientifico. Quindi si studiava un sacco di fisica, di chimica, di analisi matematica. E tutta questa fisica, tutta questa chimica, tutta questa analisi matematica si studiava su libri che avevano le copertine azzurine, verdine, gialline, grigiastre.
Ogni tanto, magari per un'ora buca, si finiva in biblioteca. Anche lì i libri di fisica, di chimica, di analisi matematica erano tutti azzurrini, verdini, giallini, grigiastri.
C'erano anche un sacco di riviste scientifiche. Tutte azzurrine, verdine, gialline, grigiastre. Anche Scientific American non era molto vivace. Era tutto bianco. Poi, un giorno, leggendolo meglio, ho scoperto Martin Gardner. E con Martin Gardner ho scoperto che quello che scriveva, quello che pensava, quello che insegnava non era né azzurrino, né verdino. né giallino, né grigiastro. Quello che ho imparato leggendolo era tutto colorato, tutto divertente, tutto follemente serio, tutto stupendamente originale.
Martin Gardner se ne è andato a 95 anni. Ma tutto quel colore per fortuna è rimasto.

lunedì 24 maggio 2010

Chi ben comincia...

Oreste del Buono sosteneva che, per capire la bontà di un libro, fosse necessario leggere la prima pagina, poi la pagina otto, poi la pagina sedici, poi la ventiquattro e così via fino alla fine, seguendo la numerazione dell'otto. Ultimamente Mino Milani mi ha detto che legge le prime sedici pagine. Se il libro regge fino a quel punto, allora merita di essere letto fino alla fine. Altrimenti finisce nel purgatorio (o nell'inferno) dei libri da non leggere.
Altri mi hanno confessato di leggere la prima frase soltanto. Se la scintilla fra loro e il libro non si accende lì, allora il libro viene inevitabilmente chiuso e dimenticato.
Nella mio ruolo schizofrenico di lettore e di scrittore trovo queste affermazioni o altamente condivisibili, o terribilmente condannabili. Tuttavia, come lettore, non ho mai applicato nessuno di questi metodi. Se apro un libro lo devo finire, per quanto noioso possa essere. Non mi avvalgo mai, pertanto, degli imprescrittibili diritti del lettore, stilati da Daniel Pennac.
Comunque mi sottopongo volentieri a questa prova e comunico che l'incipit del mio romanzo Notte di nebbia in pianura, edito da Manni Editori, è leggibile sul blog letterario La poesia e lo spirito e sul blog di Giovanni Agnoloni. Vedete un po' voi.
Il ringraziamento per questa opportunità va a Marino Magliani.

domenica 23 maggio 2010

23 maggio 1992

Al Salone del libro di Torino vado sempre di sabato. Perché ho più tempo. Perché è diventata un po' un'abitudine. Anche adesso è un sabato. Un sabato di fine maggio. Dalle mie parti fa gìà un po' di caldo, ma a Torino si sta un po' meglio. Sai com'è, ci sono le Alpi vicine.
Sei lì dalla mattina. A girare tra gli stand. Editori, autori, libri. Ci stai per ore. Poi, alle cinque del pomeriggio cominci a pensare di tornare a casa. L'auto, il viaggio, i chilometri. Mi sa che è proprio ora di andare.
La radio dell'auto è rotta. Poco male. Tanto, cosa vuoi che succeda mai di importante?
Mi fermo ad un autoglill. Pausa per un caffè. Famiglie, tizi vestiti di pelle con grosse moto parcheggiate in fila, la ragazza carina alla cassa. Riparto verso casa. Ci vorrà un po' di tempo, un due o tre ore, dipende dalla velocità, dipende dalla voglia, dal paesaggio, magari.
C'è ancora la luce del sole. Sono le otto di sera. Metto l'auto nel garage. Sono a casa. E' un sabato sera tiepido di fine maggio.
Mio padre mi dice: hai sentito? I èn fai fò Falcone. Hanno ucciso Falcone.
E' un sabato sera tiepido di fine maggio. Di diciotto anni fa.

sabato 22 maggio 2010

Colonia Alpina Ferranti Aporti Nava, di Marino Magliani (Senzapatria)

La parola è un mezzo. La parola è uno strumento. La parola è un pretesto. La parola è, a volte, anche una chiave per aprire le porte del tempo. Ma di un tempo che va a ritroso, di un tempo che di noi si fa beffe, di un tempo che si diverte a scardinare se stesso e noi, che siamo i burattini inconsapevoli di un teatro della memoria, sul cui palcoscenico crediamo di essere protagonisti, mentre in realtà non sediamo nemmeno in platea.
La parola è un suono. La parola è un lamento. La parola è un ritmo. La parola è un lento incedere che, a poco a poco, accelera sino alla creazione di un maelstrom che inghiotte tutto, lasciandoci con la consapevolezza del nulla. La parola è un ricordo. La parola è una lama di luce. La parola è una lama di luce che apre un varco nel buio delle case, delle chiese, delle pietre e dei muri. Per poi scomparire.
Un suono, una musica, un ritmo che, a poco a poco diviene lamento. Ma lamento accettato, consapevole, messo in conto. Quasi silenzioso.
Ci vuole coraggio. Sì, ci vuole coraggio nel descrivere i nostri lati oscuri, mimetizzandoli, annegandoli quasi, nella narrazione della apparente banalità del nostro vivere. Ci vuole coraggio nel guardarli in faccia, sapendo che il nostro destino ultimo sarà quello di essere trasformati in statue di sale. Ma in statue di sale che non trovano la loro ragione d'essere nella reiterazione del mito, bensì nella rarefatta (e perciò non meno inquietante) descrizione di ciò che di inconoscibile e di inspiegabile si nasconde nelle pieghe del nostro divenire. Siamo tutti fantasmi. Fantasmi che cercano di tornare a casa.
Un libro.
Colonia Alpina Ferranti Aporti Nava, di Marino Magliani (Senzapatria).

giovedì 20 maggio 2010

Via Cavour è una perpendicolare di via Roma

Via Cavour è una perpendicolare di via Roma. Di auto ne passano poche e ci picchia un sole così giallo che, chissà perché, sembra di essere in Etiopia o in Eritrea. Che poi si potrebbe essere benissimo in un altro posto, ma, quand'ero piccolo, sul sussidiario erano le foto delle strade dell'Asmara o di Addis Abeba ad essere così gialle per il sole.
Il sudore che ti bagnava la maglietta, quando a otto anni te ne andavi in bicicletta, con la ruota davanti che scivolava come una biscia sul bianco della ghiaia, è lo stesso che ora ti appiccica le ascelle, sotto la felpa blu e la giacca a vento senza maniche, che porti perché la mattina fa ancora freddo. Che porti perché non hai più otto anni.
Che poi, dietro alla murata delle case, tutte attaccate, tutte nocciola, gialline e rosetta, dietro alle porte a alle finestre e dietro al legno dei portoni o al ferro dei cancelli, si apriva a perdifiato l'infinito dei campi, così infinito che si mangiava in un boccone la linea di confine dei cortili. E non serviva nemmeno l'acqua scura del fosso, che la pianura se la portava via anche lei e, quando arrivavi nel fondo di quei cortili e di quegli orti tutti verdi, ti sembrava di volare via, su, su fino in cielo.
Oggi passavo da via Cavour. E ci passavo a piedi, lentamente, sudando per il sole e ascoltando lo scricchiolio dell'asfalto rovinato. Mi son fermato a guardare dentro ad un portone aperto. In fondo c'era il grigio cupo di un capannone, lungo più del fosso, alto più degli alberi. E ho capito che da tempo non vola più nessuno.

Una guerra civile, di Claudio Pavone (Bollati Boringhieri)

Ho letto e leggo molti saggi storici. Non ne conosco il motivo, ma la passione per la Storia me la porto dietro sin da piccolo. Nella mia formazione universitaria e professionale sono stato lontanissimo dalla Storia. Per questo leggo saggi storici per pura passione. Come un dilettante. Senza alcun rimpianto. Così, perché mi piace farlo. Non ne parlo mai. Ne scrivo ancora meno. Ma per Claudio Pavone faccio un'eccezione.
Certo. E' sin troppo facile dire che la Storia parla di noi. E' tautologico. E' lapalissiano. Ma esistono pennellate di vera e propria vita che trasformano un'analisi apparentemente fredda in un vero e proprio affresco. E un affresco nel quale, a guardare con attenzione, scopriamo non solo noi stessi, ma i nostri più intimi convincimenti, i nostri più nascosti coinvolgimenti.
Ci sono momenti di passaggio, riti di passaggio, che segnano profondamente la quotidianità della nostra vita. E la nostra vita ne esce trasformata non solo nella sua individualità, ma anche e soprattutto come elemento costitutivo di un insieme più grande: la vita di una collettività.
Claudio Pavone dipinge questo affresco, cogliendo dall'esperienza dei singoli quel comune sentire che caratterizza uno spaccato temporale. E lo fa con i colori delle idee, dei pensieri, delle illusioni, dei desideri.
Il nostro presente è figlio di un passato che non smette mai di perseguitarci. La nostra banalità quotidiana è rossa del sangue di chi ci ha preceduto. Claudio Pavone lo sa. Claudio Pavone lo scrive.
Un libro.
Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, di Claudio Pavone (Bollati Boringhieri).

mercoledì 19 maggio 2010

Sovversivi del gusto

La parola scritta non necessariamente è al solo servizio della narrazione. Ci sono due cose che la parola scritta riesce a trasfigurare: la musica e l'enogastronomia. Ho già detto qui una volta come la musica possa essere trasfigurata dalla narrazione. Così anche i luoghi, e le persone che li abitano, possono esserlo. E l'enogastronomia diventa il pretesto (ma un pretesto fondamentale) per raccontare e per raccontarci.
Ho scritto a lungo di cibo e di vino, ma, onestamente, di entrambi non mi importa nulla. Viceversa mi interessa degli uomini, delle donne, della terra, della vita e dell'arte. Così Michele Marziani, l'autore dei testi di questi due volumi. E che dire? Che è proprio così. Che quella che può suonare come un'affermazione guascona e magari un po' provocatoria è, in realtà la pura e semplice verità. Perché dietro ai visi di quegli uomini e di quelle donne, che Marco Salzotto, autore delle fotografie, ritrae con presa sicura ma pensierosa, c'è tutta la gioiosa disperazione di chi, tutti i giorni, combatte non una battaglia, bensì una vera e propria guerra contro i luoghi comuni, contro il pensiero dominante, contro l'appiattimento globale. E le parole di Michele Marziani e le immagini di Marco Salzotto ci restituscono le storie di chi, con la dignità di chi sa di avere ragione, combatte e lavora quotidianamente per ricreare la dignità di un sapore, di una terra, di noi tutti.
Due libri.
Sovversivi del gusto e Sovversivi del gusto 2, di Michele Marziani e Marco Salzotto (NdA Press).

martedì 18 maggio 2010

Quando non c'era il noir (Attilio Veraldi e John Alcorn)

Quando il noir italiano non c'era ancora, quando si diceva che gli italiani non erano in grado di scrivere altro se non romanzi intimistici, Attilio Veraldi c'era. E c'erano La mazzetta, Uomo di conseguenza, Naso di cane, Il vomerese. E si leggeva Linus e su Linus si vedevano le pubblicità dei libri della Rizzoli, che allora pubblicava Veraldi. E la cosa più bella era che le copertine dei libri Rizzoli le disegnava John Alcorn. E John Alcorn disegnava queste copertine con figure strane, quasi oniriche. Uomini e donne e oggetti tratteggiati morbidamente, ma che presentavano comunque la dote della stabilità. Cappelli e cappottoni, creati quasi per nascondere più che per svelare. La stabilità raggiunta attraverso un segno stolido, che anticipava forse la stolidità tranquilla di un futuro già presente. I '70 che diventavano silenziosamente gli '80. Tanto tempo. Troppo tempo. Forse.
Salone del libro 2010. Mi avvicino allo stand della Avagliano. E scopro che ha ristampato tutto Attilio Veraldi. Le copertine di John Alcorn non ci sono più. Ma i libri di Attilio Veraldi sì.

domenica 16 maggio 2010

Oggi sono stato al Salone del LIbro

La ragazza bionda che bacia il suo ragazzo dimostra più dei suoi vent'anni. Sulla banchina della stazione Torino-Lingotto. Ma la pelle del suo viso è di porcellana, come i visi delle ragazze dagli occhi scuri, sedute negli stand degli editori. L'incontro fuggevole e indiretto con i loro sguardi lascia attimi di nostalgia, non appena i loro occhi ti trapassano per guardare oltre.
C'è un sottofondo di brusii, di annunci da ferrovia, di suoni pulsanti, un po' da sagra di paese. E' sempre stato così. O meglio, ci piace pensare che sia sempre stato così e che così sarà per sempre.
Suoni, voci, aspettative forse frustrate, colori scontati nella loro decisione, nomi (di libri, di autori, di editori) che ci confermano nella certezza incerta dei nostri sogni.
L'abbraccio fraterno con Massimiliano Santarossa, che ti invita a sederti con lui, nel suo stand, "siediti qua, questo è il posto per gli amici". La stretta di mano e i saluti con Tullio Avoledo, indaffarato con i figli al seguito, che sorride ironico, come se fosse tutta una ironica trama. L'arrivo allo stand della Manni, con Agnese che ti guarda come se di te sapesse già tutto e ti conoscesse da sempre e con Anna Grazia D'Oria che ti sta ad ascoltare, con pazienza, facendo finta di non accorgersi delle tue ansie e dei tuoi errori ingenui. L'incontro rivelatore con Marino Magliani, che "quasi tutto ció che ha scritto o pensato di scrivere riguarda la Liguria", e che, quando gli parli, è come se l'avessi sempre conosciuto e che ti dona la sua ultima fatica "Colonia Alpina Ferranti Aporti Nava". La telefonata a Bianca Garavelli, per dirle che devi ripartire e che non puoi esserci alla presentazione perché ti parte il treno e lei ti dice "stai tranquillo". L'acquisto di Monteverde, di Gianfranco Franchi e di Rapsodia su un solo tema , di Claudio Morandini, perché li conosci da anni via e-mail, ma non li hai mai incontrati e forse non li incontrerai mai.
Insomma, io, oggi, sono stato al Salone del Libro.

venerdì 14 maggio 2010

Premio Letterario Tracce di Territorio. I finalisti della sezione narrativa

Ricevo dall'amica Bianca Garavelli questo comunicato, che pubblico.

La Giuria Letteraria del Premio "Tracce di territorio", formata da Mino Milani (Coordinatore), Tino Cobianchi, Bianca Garavelli, Giuseppe Polimeni, Paolo Pulina, Angelo Ricci e Gian Battista Ricci (ideatori del Premio), ha scelto i quattro finalisti 2010 per la sezione narrativa "Riccardo Bacchelli". Il Premio è organizzato dal Rotary Club Cairoli in collaborazione con l'Associazione Tracce di Territorio, con il contributo di ILPRA Group e il patrocinio della Provincia di Pavia.
Le quattro opere narrative ben interpretano la finalità del Premio di esaltare i dettagli più intensi e suggestivi di un particolare territorio italiano:
Franco Arminio, Nevica e ho le prove. Cronache dal paese della cicuta, Laterza;
Massimo Bubola, Rapsodia delle terre basse, Gallucci;
Marino Magliani, Vincenzo Pardini, Non rimpiango, non lacrimo, non chiamo, Transeuropa;
Cristina Zagaria, Perché no, Perdisapop
Franco Arminio vive a Bisaccia, in Irpinia, è poeta e narratore. Ha al suo attivo romanzi e libri di poesie per gli editori Laterza e Sironi e svolge attività di documentarista. Il suo romanzo è il resoconto minimalista e tragico della difficile vita in un paese ai margini d'Italia, con il ritmo di un diario rabbioso e sincopato.
Massimo Bubola, nato in provincia di Verona, è definito il fondatore del folk-rock italiano e ha pubblicato venti album. È coautore di celebri canzoni con Fabrizio De Andrè e del successo di Fiorella Mannoia Il cielo d'Irlanda. Concorre con la sua prima opera narrativa: una storia suggestiva, sospesa in un riuscito equilibrio fra realtà e immaginazione, quasi una fiaba.
Marino Magliani, traduttore e narratore che vive in Olanda (ha pubblicato romanzi per Sironi e Longanesi), firma con il noto giornalista e scrittore toscano Vincenzo Pardini (ha vinto tra l'altro il Premio Viareggio d'inverno) questo libro composto da quattro racconti, due per ciascuno. Quattro storie di campagna, violente e sorprendenti, quattro riflessioni sull'imprevedibile durezza della vita, tanto che nella Postfazione Arnaldo Colasanti rievoca «il toro di Maupassant, lo sfinimento dell'arlesiana di Berlioz».
Cristina Zagaria è nata a Carpi e vive a Napoli, dove lavora nella redazione de «La Repubblica». Ha pubblicato romanzi e saggi per gli editori Dario Flaccovio e Dedalo, tra cui Processo all'Università (2007). Protagonisti del romanzo sono "ragazzi di vita" nella Napoli dei nostri giorni. La loro storia di brutalità è raccontata a perdifiato, come da un coro di voci disperate.
La premiazione si svolgerà sabato 12 giugno a Mortara, a Palazzo del Moro: fra questi quattro libri sarà scelto il vincitore per la narrativa; saranno inoltre premiate le sezioni "Cesare Cantù" (saggistica storica), e "Narrare con le immagini" (fotografia), su cui è al lavoro la Giuria degli studenti del Liceo Scientifico "Omodeo" e dell'Istituto Professionale "Pollini" di Mortara e degli Istituti Tecnici "Caramuel" e "Casale" di Vigevano.

Per info: http://www.traccediterritorio.it/

giovedì 13 maggio 2010

The Great Complotto Pordenone

Ci sono parole, nomi, assonanze che hanno una vita propria, che hanno la forza di creare una sensazione che, forse, anche se solo per un attimo, ci avvicina all'eternità.
The Great Complotto. Questa unione di una parola anglosassone e di una parola italiana. Questa commistione di suoni, quasi cialtronesca, che apre una breccia fra le tracce dei ricordi. Sfoglio distrattamente uno dei tanti allegati di un qualche quotidiano e improvvisamente mi appare un articolo che mi ricorda che The Great Complotto è ancora vivo, che The Great Complotto c'è ancora. Quella unione di suono latino e anglosassone, quella espressione fatta quasi per ricordare La grande truffa del Rock'n' Roll, di Julian Temple, con Malcolm McLaren che racconta tutto e niente. Ma il film di Temple è dell'80, mentre The Great Complotto è del 1979. The Great Complotto non è una truffa. The Great Complotto è stato un sogno. The Great Complotto è stata la preistoria di quasi tutto quello che si crea oggi nel panorama indie.
Continuo a sfogliare questo giornale. Vedo facce un po' imbolsite, vecchi parka da Mod, da indossare guidando una Vespa superfanaluta alla Quadrophenia, qualche occhio bistrato da ragazza alla Kaos Rock meneghino fine anni '70. Ma The Great Complotto continua. The Great Complotto ci sarà sempre. Perché quando hai sognato una volta, quel sogno non lo dimenticherai mai più.
Nel sito del Great Complotto ci sono queste parole: Questo sito è dedicato a tutti quegli anni che non torneranno più. Mi piace.

mercoledì 12 maggio 2010

La distruzione, di Dante Virgili (Pequod)

Nella mie peregrinazioni letterarie mi imbattei, qualche anno fa, in questo libro. Credo che non necessariamente di un libro si debba parlare una volta letto. Ci sono libri che devono sedimentare nella memoria, che devono sedimentare nell'immaginario, che devono sedimentare in quella zona grigia del nostro animo, che nasce dalla inevitabile ibridazione del bene e del male e che è propria di ognuno di noi.
Ne parlo ora. Ne parlo ora perché la sedimentazione si è compiuta anche nella mia personalissima zona grigia.
Un libro grigio, appunto. Non nel senso della banale mediocrità, perché nulla è così lontano dalle sue pagine come la banale mediocrità. Grigio come grigio è il Nacht und Nebel dei nazisti. Un grigio che non solo tende, ma porta al cupo. E porta al cupo non per un vezzo stilistico, bensì per una vera e propria determinazione ideale ed espressiva. Perché la Storia, o meglio lo sviluppo temporale di quell'orrore che è parte integrante di essa, porta inevitabilmente alla sofferenza, e qui giungiamo al divenire ultimo di quest'opera, e alla distruzione.
Perché quella distruzione che sta nel titolo si riferisce soltanto come pretesto all'attesa di una presunta guerra atomica che fa da sfondo alle azioni dei personaggi. In realtà la distruzione che Virgili espone è una sorta di obiettivo finale al quale la voce narrante anela con una voluttà quasi orgasmica. Ma è una voluttà perversa, corrotta, nascente da un insopprimibile desiderio sadico e masochistico al contempo.
Il sapore acido della banalità dell'orrore è quello che sorge dalle parole ossessive, compiacenti e compiaciute che trasportano queste correnti di sensi inquieti ed inquietanti. Perché è proprio nel compiacimento di ciò che di orribile si contempla, che si trova il nocciolo di questa narrazione.
Siamo lontani, e lo siamo a ragion veduta, da ipotesi salvifiche, nascenti forse dalla sofferenza. No. La sofferenza, subita e soprattutto distribuita, diviene il fine ultimo al quale tendere. E al quale tende, con una voluttà escatologica, il nazista personaggio e io narrante che, nella persistenza costante del ricordo, giunge ad una sorta di contemplazione quasi onanistica di quella commistione tra passato e presente, sempre venata dalla presenza costante e inquietante dell'orrore.
Ne La distruzione non c'è lo sfogo di un Céline, non c'è la constatazione di un Drieu La Rochelle, non c'è il delirio di un principe delle tenebre. Ne La distruzione c'è la contemplazione del nostro lato oscuro. Quel lato oscuro che porta non verso l'eternità del Male, ma verso quella, ben più persistente e perniciosa, del Nulla.
Un libro.
La distruzione, di Dante Virgili (Pequod).

lunedì 10 maggio 2010

La costante rimozione di un destino

C'è un tempo che scorre e che porta via una gran parte di quello che siamo stati e, forse, anche di una gran parte di ciò che siamo. La nostra percezione di quello che sta intorno a noi è volubile ed eterea, come volubili ed eteree sono le idee, le impressioni, i sentimenti. Un mese di maggio. Di trentadue anni fa. Dalle foto, uomini e donne con cappotti, giubbotti e maglioni. In questi giorni, il freddo e la pioggia ci riportano un tempo desueto, che ci era da anni estraneo. Un punto d'incontro che tange due primavere fredde. Trentadue anni dopo. Difficile confrontare i pensieri. Trentadue anni sono ben più di una generazione. E il tempo rimuove e, perché no, distrugge inesorabilmante i ricordi. Fa di noi e del nostro comune sentire un'immensa tabula rasa, sulla quale danzano artefatti fantasmi multicolori, ricoperti di carta e di plastica. Siamo destinati e dannati alla ripetizione coattiva dei nostri gesti, immersi in un'atmosfera di gioia forzosa e forzata. Noi stessi siamo gli artefici della nostra maledizione.
1978. Trentadue anni fa. 1978. L'anno del quarto posto della Nazionale ai mondiali d'Argentina. L'anno della storia di Garage Olimpo.
Forse sarebbe opportuno (ri)leggere le pagine di un libro. Forse sarebbe opportuno (ri)vedere le immagini di un film.
Un libro.
L'Affaire Moro, di Leonardo Sciascia (Adelphi).
Un film.
Todo Modo, di Elio Petri (1976).

domenica 9 maggio 2010

Entropia di una ricorrenza (auguri Mr. Pynchon)

E vabbe', succede. Succede di ricordarsi in ritardo di un compleanno. Thomas Pynchon è nato l'otto di maggio e io me ne ricordo il giorno dopo.
Negli '80 sviluppai un'insana passione per la letteratura underground. Erano i tempi della Amok Press. Hakim Bey e le TAZ erano di là da essere scoperte nei nostri asfittici e nepotistici panorami culturali e allora il massimo della follia letteraria te la andavi a cercare con Pynchon, con Heller, con Coover e compagnia bella.
Che poi io ho sempre avuto e ho il massimo rispetto per Fernanda Pivano. Lei che aveva tirato la volata ai minimalisti, che però mi sembravano (e mi sembrano) un po' fighetti e figli di papà. E lei però non ci ha mai detto che erano nati come reazione proprio ai postmoderni (Pynchon e tutta la compagnia) che erano troppo ridondanti. Però Pynchon e tutta la compagnia erano già una reazione a Hemingway, ecc. ecc.
Vabbe', ma a me troppa teoria letteraria mi fa venire il mal di testa. Carver, per esempio, che la Pivano considerava lo zio dei vari Easton Ellis e McInerney (giovani precocemente imbolsiti), a me è sempre sembrato il cugino (pure leggermente più stronzo) di Bukowski.
Comunque a leggere Pynchon mi sono sempre divertito. E tanto basta (anche se una volta ha doppiato se stesso in un episodio dei Simpsons, dove appariva con un sacchetto in testa e invitava i passanti a entrare a pagamento nella casa del "grande scrittore senza volto").
Vabbe'. Questo mi ha fatto un po' titubare sulla sua genuinità, ma tutti dobbiamo pagare le bollette (almeno Bukowski l'ho visto ubriacarsi dal vivo mentre lo intervistavano sulla tv francese).
Comunque, auguri Mr. Pynchon!

sabato 8 maggio 2010

Riposa in pace vecchio Phil

D'accordo. Io, il buon vecchio Philip Dick, me lo sono letto tutto, ma proprio tutto. E quando leggi tutto un autore, entri quasi in simbiosi con lui, fino a venire a conoscenza di tutte le sue ossessioni.
Certo, in Phil Dick di ossessioni ce n'erano tante. La religione, anzi la teologia; l'uso di massa delle sostanze stupefacenti; Tricky Dicky Nixon, come incarnazione del potere malefico (l'hanno fatto anche Ellroy e DeLillo); l'entropia che pervade l'universo e anche e soprattutto le nostre vite; la figura del cyborg, l'uomo con innesti bio-psico-chimici, e via dicendo.
Ma quella che mi ha sempre sorpreso di più è legata alla possibilità che l'Uomo di Neanderthal e l'Homo Sapiens sarebbero entrati in contatto e si sarebbero accoppiati. Phil Dick se la porta dietro in molti dei suoi romanzi, anche in alcuni di quelli mainstream. La reitera e la ripresenta sotto tante di quelle forme da trasformarla quasi in un'ossessione per un'ossessione.
Oggi leggo che Neanderthal e Sapiens si sono incontrati e si sono accoppiati.
L'ossessione profetica del grande, folle, incompreso, geniale scrittore si è compiuta.
Riposa in pace vecchio Phil.

mercoledì 5 maggio 2010

In memory of Bobby Sands

Ci sono immagini che ti restano. Che ti restano appiccicate alla memoria.
Io, Bobby Sands me lo ricordo. Me lo ricordo perché mi è rimasta appiccicata alla memoria l'immagine di una coperta militare, anzi, di una coperta in dotazione ai detenuti. Quella che indossava per coprire la sua nudità, lui che rifiutava di indossare la divisa dei detenuti.
Io non so niente. Così risponde con orrore il poliziotto interpretato da Clint Eastwood in Un mondo perfetto, quando si rende conto di avere, nella sua carriera, commesso solo sbagli.
Forse nessuno di noi sa niente, o peggio, ricorda niente.
Anch'io non so niente. Però, oggi, voglio ricordarmi di Bobby Sands.
Bobby Sands è morto nel carcere di Maze il 5 maggio 1981.
Aveva 27 anni.

lunedì 3 maggio 2010

Nevica e ho le prove (Cronache dal paese della cicuta), di Franco Arminio (Laterza)

Una lucida autoanalisi. Senza attenuanti. Senza scampo. Una cronaca dell'anima. Una cronaca di quello specchio dell'anima che sono i luoghi che consapevolmente abitiamo e che, a nostra insaputa, a loro volta ci abitano.
Non c'è soluzione di continuità fra il dentro e il fuori. Non c'è soluzione di continuità fra noi e gli altri. L'unica possibilità è forse chiudersi in casa, non uscire più. Prigionieri comunque di un'inazione che sposta soltanto di poco il nostro destino.
Il paese è quel luogo dove non si può salire ma si può sprofondare. Ecco la nostra condanna. Ma è una condanna pienamente condivisa, che vede il condannato stesso crogiolarsi nello scontare la sua pena.
Franco Arminio non sposta lo sguardo di un millimetro. Anzi, vede, analizza, giudica ed emette la condanna con la perfetta consapevolezza di essere, al contempo, giudice, boia e accusato
Come un uomo dall'equilibrio di ferro che improvvisamente impazzisce o come un pazzo che miracolosamente rinsavisce, comprende che ogni istante della nostra vita si riflette sul suolo che calpestiamo e che è quello stesso suolo a dirigere i nostri passi.
L'ironia è l'unica arma a nostra disposizione per accettare noi stessi e le nostre radici. Altrimenti le abitudini, il tempo, la nostra corporeità e la nostra carnalità finiranno semplicemente per annullarci. E di noi non resterà nemmeno la parola scritta.
E’ bello stare in cammino e incontrare qualcuno, disperarsi insieme o da soli, mutare forma e direzione, arrossire, impallidire, naufragare nel proprio sangue, tuffarsi, con estrema precisione, nel lago piccolissimo dell’eterno, in una grande festa, in una grande compassione. Ecco, tutto questo l’altra sera in pizzeria non è avvenuto e non avviene quasi mai.
Un libro.
Nevica e ho le prove (Cronache dal paese della cicuta), di Franco Arminio (Laterza).

domenica 2 maggio 2010

La reiterazione dello scuoiamento

Immagini che ci seguono all'infinito, o meglio, che ci perseguitano. Fin da piccolo rimasi affascinato (come solo dall'orrore si può rimanerne) dalla storia del supplizio di Marcantonio Bragadin.
Governatore veneziano di Cipro nel XVI secolo, fu sconfitto dai Turchi. Preso prigioniero, fu sottoposto ad una serie di terribili torture, che culminarono con il suo scuoiamento. La pelle, imbottita di paglia e rivestita con la sua uniforme militare, fu utilizzata così per creare un fantoccio che fu esposto al pubblico ludibrio.
Immagini di orrore che fanno parte del nostro immaginario. Facevo le elementari e sfogliavo una copia da collezione, dei primi anni del XX secolo, del Nuovissimo Melzi, dizionario con un grande apparato iconografico. Ricordo la pagina dei supplizi, dove erano disegnate tavole che riportavano tutti i tipi più efferati di tortura.
Immagini, appunto, che ci sconvolgono e ci affascinano. Ricordo la paura che ne avevo e tuttavia, ogni volta, andavo a rivedere quelle tavole. Anni dopo ho scoperto che lo faceva anche Umberto Eco.
Immagini quindi che ci affascinano e che reiterano la loro presenza nel nostro immaginario.
Il supplizio di Marcantonio Bragadin viene citato e descritto in due recenti romanzi: Altai, di Wu Ming e Rapsodia delle terre basse, di Massimo Bubola.
Reiterazioni, coincidenze, fascinazioni. L'orrore è parte totalizzante del nostro immaginario.
Non c'è scampo. Forse.