lunedì 12 luglio 2010

Intervista a Claudio Morandini

Claudio Morandini è nato nel 1960 ad Aosta, dove vive e insegna. In passato ha scritto cicli di commedie per la radio e monologhi per il teatro. Prima di “Rapsodia su un solo tema – Colloqui con Rafail Dvoinikov” (Manni, 2010) ha pubblicato i romanzi “Nora e le ombre” e “Le larve”. Il suo racconto “Le dita fredde” è stato incluso nell’antologia bilingue “Santi – Lives of Modern Saints” edita a Baltimora (Black Arrow Press, 2007). “Fosca – Una novella valdostana” si trova nell’antologia “Nero Piemonte e Valle d’Aosta – Geografie del mistero” appena pubblicato da Perrone. Altri racconti sono apparsi su varie riviste.

Claudio, affrontiamo subito il tuo Rapsodia su un solo tema. È un romanzo che si stacca nettamente da molta letteratura contemporanea. Quanto c’è di passione letteraria e quanto, permettimi, di provocazione?
Non avevo l’intenzione di provocare, ti assicuro, e nemmeno di contrappormi polemicamente alle mode correnti. Volevo soprattutto condividere una passione personale (per la musica, in particolare per il mondo musicale del Novecento) che negli anni si è nutrita di ascolti e letture, raccontandola attraverso le vicende di alcuni personaggi. Volevo misurarmi con il racconto della musica. Poi, certo, volevo prendere alcune distanze: da certe atmosfere dei romanzi precedenti, da alcuni cliché con cui anch’io avevo giocato e che oggi dilagano.
Ho corso (consapevolmente) qualche rischio, in questo: la musica colta del Novecento non attrae folle isteriche di fan; la struttura del romanzo, che fin dalla copertina finge di essere un saggio, o almeno una raccolta di pagine anche saggistiche, invita il lettore a stare al gioco in un modo che oggi non è più praticato;
nel mondo interiore e nelle vicende dei personaggi si entra un po’ alla volta, e ci vuole un po’ di pazienza, lo so. Ma (e questo è un grosso ma) credo di avere lasciato al romanzo una certa leggerezza, di averlo colorato di ironia sorridente; e assicuro di non avere calcato troppo la mano con la componente analitica della musica.
Ripeto, la mia non era un’operazione snobistica, o élitaria, e sono felice che un editore come Manni lo abbia capito e abbia voluto credere in Rapsodia.

Mi pare che tu sia riuscito, con grande maestria, a creare un vero a proprio mondo parallelo. Tuttavia, non è per nulla un mondo algido e artefatto, bensì un mondo che ci lancia come un atto di accusa. E questo atto di accusa è che l’umanità non apprezza l’Arte, il Bello, ma anzi fa di tutto per eliminarli o ammaestrarli. Secondo te, l’amore, la passione, direi anche la dedizione per l’arte possono essere ancore di salvezza o sono solo illusioni?
Dedizione per l’arte, dici bene. Nel mio romanzo la composizione della musica viene raccontata proprio così, come un esercizio paziente, un lavorare costante sul proprio stile, un confronto continuo con la tradizione alla ricerca di una propria voce nuova. In un’arte concepita così, come lavoro umile ma consapevole (da artigiano, da orafo), vedo una possibile salvezza al degrado e l’imbarbarimento dei nostri tempi. Forse Rapsodia su un solo tema vuole suggerire anche questo: esiste un mondo di bellezze, di suoni, di parole e di colori che pochi conoscono, ma che appunto esiste, e può restituire gratificazioni ed emozioni in abbondanza, può insegnare una tensione alla libertà oltre che un’attenzione alle regole (a quelle che noi stessi ci siamo dati), e ci aiuta a scavare dentro di noi e dà voce a ciò che siamo e non sappiamo di essere.
Il libro racconta dei condizionamenti che la musica può subire da diverse forme di potere. Ma racconta soprattutto di come la musica (e l’arte in genere) possa sfuggire a questi condizionamenti, possa depistare i censori, persuadere i committenti (senza committenza, o senza un pubblico, l’arte muore), forzare le direttive, o almeno, accettato qualche compromesso, possa rimanere fedele a se stessa.  
Quanto all’oggi, all’Italia di oggi intendo, assisto con preoccupazione all’indifferenza generalizzata, alla diffusa sordità all’arte, frutto di un lavoro pluridecennale di diseducazione. Alla grandezza perturbante e non ingabbiabile dell’arte i grandi mezzi di informazione hanno sostituito prodottini edulcorati, rassicuranti, divertenti, di facile consumo, kitsch, magari dotati di un carattere subdolamente celebrativo. Rapsodia racconta anche di questa forzatura, anche se riferendosi a periodi e contesti diversi.
Al potere, paradossalmente, sembra più pericoloso il lavoro paziente dell’artista che esercita un suo magistero che unisce libertà e disciplina, e insegna a dominare il caos attraverso l’esercizio del controllo – piuttosto che il gesto dell’artista invasato, del vate ispirato, che si può sempre far passare per un innocuo picchiatello.

Una storia, quella che narri in Rapsodia su un solo tema, che non è ambientata in Italia. È una scelta programmatica o semplicemente funzionale alla struttura del romanzo?
Nei precedenti romanzi ero rimasto in Italia, un Italia di pianura, non geograficamente o topograficamente definita, di cui si riconoscevano dei tratti nei paesaggi, nei cognomi, che so, in certi aspetti (preferisco alludere che nominare).
Nel caso di Rapsodia, invece, la scelta rispondeva a una sorta di criterio geometrico: il giovane compositore statunitense, da una parte; dall’altra, il vecchio compositore russo; insomma due generazioni, due mondi, con due percorsi storici diversi, intenti a guardarsi e a cercare di capirsi. In effetti avrei potuto trovare esempi di artisti piegati dalla censura e dall’autoritarismo ovunque nel mondo; ma per varie ragioni ho rinunciato ad altre ambientazioni e ho trovato esemplare, paradigmatico il confronto Prescott-Dvoinikov. Se per esempio avessi provato a immaginare un Dvoinikov italiano (sul modello, che so, di Alfredo Casella) non mi sarebbe venuto altrettanto bene. Sarebbe mancato il dramma potente di chi prima ha vissuto la stagione eccitante della rivoluzione anche artistica del suo paese, poi la lunga e cupa fase del ripiegamento e dell’oppressione; e il tutto avrebbe finito per avere un colore da commedia, se non da farsa, che non mi interessava.

Dentro a questo romanzo c’è molto. Ma anche dietro a questo romanzo c’è molto. Non è certo un libro improvvisato. Come è stata la tua preparazione operativa e organizzativa, per arrivare alla sua stesura definitiva? Quali sono state le fonti, letterarie e non, che hai utilizzato o che ti hanno ispirato?
Le fonti sono tante, e in questi mesi mi sto divertendo a enumerarle nel mio blog, come ho fatto per i romanzi precedenti. In fondo ogni cosa che scriviamo si nutre di ciò che abbiamo letto, oltre che di ciò che abbiamo vissuto. I libri ci aiutano a trovare le parole giuste, il tono giusto – e anche il giusto distacco.
Il modello iniziale sono state le Conversazioni di Robert Craft con Igor Stravinsky: da quell’antica lettura (nell’edizione Einaudi del 1977) ho preso l’idea della forma dialogica, del confronto tra vecchio e giovane. Ma in generale il modello di Stravinsky (la sua filosofia della musica, i suoi scritti, l’imprevedibilità delle sue svolte stilistiche) ha dato un contributo fortissimo, anche se il vecchio Dvoinikov non gli assomiglia per nulla, quanto a carattere e percorso di vita. Poi Luciano Berio: musica, scritti, e il ricordo (poi rinfrescato grazie alle repliche notturne) del suo ciclo di trasmissioni C’è musica e musica. Poi La musica Moderna, una collana di LP della Fabbri dei tardi anni sessanta che mi ha permesso di entrare in confidenza con molti autori. Poi, che so, i vecchi film di Ken Russell, che anni fa mi erano sembrati l’unico modo per raccontare la vita dei musicisti senza impantanarsi nell’agiografia. Le vecchie foto sgranate dei tre volumi dell’enciclopedia De Agostini sulla Rivoluzione russa, curata negli anni sessanta da Enzo Biagi. E ancora: la puntata dei Muppet’s con Liberace, i balletti di Khachaturian, le lettere di Shostakovich (e la sua musica, d’accordo), le conversazioni con un amico compositore come Alessio Elia… E poi la mia piccola storia di pianista distratto e mancato, i miei amori (e le mie idiosincrasie) di amateur della musica…
Dai modelli più illustri di letteratura dedicata alla musica, invece, sono stato alla larga, per non scimmiottarli e correre il rischio di schiantarmi. Il Mann del Doctor Faustus, Proust… letture antiche, sedimentatesi da qualche parte nella memoria, che non ho voluto rinfrescare per sentirmi più libero.

Claudio, tu abiti ad Aosta. Com’è l’Italia letteraria vista da lassù? Come senti, da scrittore, il rapporto con la tua terra?
In Valle d’Aosta conosco diverse persone piene di talento, curiose e ansiose di misurarsi ad un livello più ampio, al di là dei confini regionali.  Ma la cultura ufficiale che si respira qui, a parte le dovute eccezioni, è per lo più autoreferenziale, giocata sull’esaltazione di un localismo che a me pare di maniera.
A supplire in parte a questo isolamento c’è quella rete di contatti che si crea e si alimenta negli anni attraverso le amicizie, internet, i colleghi di penna…
La domanda che mi fanno spesso da queste parti è: come mai non scrivi mai di Aosta, o della Valle d’Aosta? Perché non ci sono le montagne in ciò che scrivi? Qualcuno me lo rimprovera pure, come se si dovesse per forza scrivere del posto in cui si è nati. Ed è vero, ambiento le mie storie in pianura, o in giro per il mondo, e forse già questo è un modo di parlare, non parlandone, di Aosta e del mio rapporto con essa.
Però, in fondo, la cittadina dal provincialismo bacchettone e opprimente che ho raccontato in Nora e le ombre era una specie di Aosta scivolata in mezzo alla pianura padana. E il racconto Fosca, che compare in Nero Piemonte e Valle d’Aosta, butta all’aria con una certa perfidia tutta una serie di luoghi comuni arcadici delle mie parti…

Quali sono gli autori e/o i libri ai quali sei più legato, che ti hanno influenzato di più, coi quali senti una comunanza di idee o di stili o, semplicemente, che più ti piacciono?
I miei autori di sempre: Palazzeschi, Landolfi, Tozzi. Ma in Rapsodia non si sentono. Manganelli, Savinio, corretti con Calvino. Pavese, Fenoglio, la Romano. Poi piccoli culti personali, come Arturo Loria. Tra i viventi, Mari, la Matteucci, Carla Vasio.
Dei recentissimi, mi piace la lucida crudeltà di Stéphanie Hochet. Ma gli amici scrittori che ammiro e a cui mi sento legato da una sintonia profonda sono tanti, e non posso enumerarli qui tutti.
Quanto agli autori tra le cui pagine ho cercato una “russità” che mi aiutasse a trovare il tono giusto nelle parti più legate al mondo di Dvoinikov, citerei Bulgakov.
Tra gli americani mi hanno sempre affascinato Updike per il realismo dello sguardo e Vonnegut per il montaggio. E Seinfeld (le sue sit-com, soprattutto le prime stagioni, hanno nutrito l’immaginario del mio Prescott).

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