mercoledì 13 ottobre 2010

Intervista a Massimiliano Santarossa

Ho conosciuto Massimiliano Santarossa nel 2009, quando ricevette la menzione speciale del Premio Letterario Nazionale Tracce di Territorio, per Storie dal fondo, edito dalle Edizioni Biblioteca dell'Immagine. Quest'anno è uscito il suo ultimo romanzo: Hai mai fatto parte della nostra gioventù?, edito da Baldini Castoldi Dalai. A maggio, alla Fiera del Libro di Torino, mi ha accolto con grande amicizia allo stand delle Edizioni Biblioteca dell'Immagine.

Tu sei uno scrittore del Nordest. Le tue storie sono ambientate nel Nordest. La tua terra è il Nordest. Di quello che scrivi, la tua terra ne è l’immancabile scenografia. Anzi, direi che appare come la vera protagonista. Qual è il rapporto fra uno scrittore e i suoi luoghi? Qual è il rapporto fra Massimiliano Santarossa e i tuoi luoghi?
 A ben vedere ci sono solo due grandi filoni letterari: quello d’invenzione e quello reale che nasce dalla pelle, dal sangue, dall’anima.
Questo secondo genere comporta un radicamento nella terra dove si nasce, dove si cresce, dove si mangia e respira. Nel mio caso le storie sono ambientate tra Friuli e Veneto perché qui ci sono le mie radici. Però il Nordest che racconto è quello povero, violento, emarginato, un Nordest d’Italia “al contrario” rispetto all’immagine patinata e bugiarda che alcuni media vogliono far passare. Io non racconto il “Nordest locomotiva d’Italia”, narro bensì quello vero, quello dei borghi contadini trasformati in laghi di cemento, racconto quel territorio che cinquant’anni fa era tra i più belli al mondo e che oggi è identico ad una Los Angeles che si espande attraverso una periferia ultrapopolata, soffocata, soffocante, dove la ruggine e l’asfalto hanno coperto ogni cosa, comprese le vite dei figli del Nordest.
Il mio rapporto con tutto questo è stato per anni di conflitto estremo, oggi è di conflitto letterario.

 Nei tuoi romanzi spesso descrivi una realtà nella quale sono saltati tutti i legami tradizionali: la famiglia, la scuola, le istituzioni. Il lavoro stesso è soltanto sfruttamento. Non c’è più alcun orizzonte, se non quello limitato dalle singole giornate o, addirittura, dalle singole ore. Una realtà dove nessuno ha più il tempo e la voglia di costruire un futuro. Oltre questo orizzonte, esiste ancora qualche possibilità di salvezza?
 Pier Paolo Pasolini definiva le parole “speranza” e “salvezza” come le parole più violente inventate dall’essere umano. Lo pensavo anch’io fino a qualche anno fa. Oggi invece una mia forma di salvezza l’ho trovata dentro un microcosmo personale: la mia famiglia. La salvezza la trovo solo nell’amore di due persone, mia moglie che mi ha salvato dai labirinti della notte, e mio figlio che mi illumina con i suoi sorrisi e con le sue domande.
Durante gli incontri spesso i lettori mi chiedono di donare loro una speranza, ma questo non è il compito della letteratura. La letteratura non deve mai essere consolatoria, deve invece aiutare il lettore a trovare una via per contrasto, mai per induzione. Chi legge i miei libri deve mettere in conto che serve un atto di coraggio, che serve la volontà di riflettere su ciò che la vita riserva a tutti noi in certi momenti duri, e per contrasto a questo crearsi una propria speranza. Ripeto: serve avere una speranza, ma figlia della ragione.

I tuoi personaggi, a parte alcuni che si estraniano completamente dal loro mondo per mezzo di scelte senza ritorno, sembrano, pur nella costrizione di una vita terribile, non avere nessuna voglia di riscatto, se non per periodi limitati e confinati nello sballo e nell’abuso di droghe e di alcol. È un po’ come se tu descrivessi una società afflitta da una diffusa “sindrome di Stoccolma”. Tutti sono vittime di un sistema senza più un briciolo di umanità, però, nello stesso tempo, tutti cercano di essere a loro volta carnefici per ottenere proprio da quel sistema, che contestano e che li abbruttisce, un qualche vantaggio. Non solo non c’è più traccia di una coscienza collettiva, ma è scomparsa del tutto anche la coscienza individuale. Chi sono stati, se vi sono, i responsabili di questa vera e propria mutazione che appare quasi genetica, più ancora che sociale e politica?
 La vedi più nera di come la descrivo. In verità i miei personaggi (che alla fine sono tutti miei fratelli e sorelle d’anima, frequentati, conosciuti, abbracciati dentro le notti infinite) un riscatto lo cercano eccome, ed è l’unico riscatto che conta, l’unico riscatto importante, fondamentale, e si chiama amicizia, fratellanza, condivisione, in alcuni casi amore. Noi eravamo e siamo figli di una periferia violenta, violentissima, dove l’eroina, la cocaina, gli acidi, il vino, hanno cancellato quasi un’intera generazione. Qui abbiamo vissuto i moderni campi di concentramento, cioè i capannoni industriali dove una miriade di uomini e donne venivano carcerati volontariamente per tredici ore al giorno a tagliare tavole di legno, o costruire lavatrici e termosifoni, qui siamo stati strappati dai campi e dalle case coloniche per essere ingabbiati dentro i palazzoni popolari che compaiono in tutte le copertine dei miei libri, qui abbiamo vissuto la solitudine figlia dell’assenza di amore e dolcezza, e quindi il nostro più grande riscatto era ritrovare quell’amore e quella dolcezza, anche se in forma contraffatta, sintetica, sballata.
Irvine Welsh scrive “non mi interessano i successi, sono attratto solo dai fallimenti”. Io aggiungo che l’unica vittoria possibile nel nostro caso era l’abbraccio fraterno tra noi, pure nella sconfitta della vita. Una carezza, non abbiamo mai chiesto altro.

 Massimiliano, parlandoti mi è parso di capire che c’è molta partecipazione personale in quello che scrivi. Le tue storie, le tue parole sono, pur nel tono profondamente critico, un atto d’amore verso i tuoi personaggi e verso le loro radici. Quanto c’è di te nei tuoi romanzi?
 Nei miei romanzi c’è la mia anima, la mia pelle, la mia storia di ex ragazzo “cattivo”. Un ragazzo orfano di padre, poi chiuso nella classe dei “bambini diversi”, poi cacciato dalle scuole italiane per intemperanza, poi finito a fare i peggio lavori in fabbrica e infine riscattatosi grazie a quel miracolo chiamato letteratura.
Il Vez è una specie di alter-ego, forse ancora più “cattivo” di me, ma alla fine la voce sua è la voce mia. Nei romanzi non invento nulla, non ne sono capace.

Ci sono degli autori che ti hanno, non dico influenzato, ma colpito in modo particolare? Che hanno formato la tua scrittura e il tuo stile?
Ti rispondo seriamente: Boracho, il vecchio sulla Graziella disperso nel Triangolo delle Bevude di Pordenone. Quello che a 14 anni mi ha raccontato dell’odore della pelle delle puttane turche. E’ un vero Poeta di Vita. Un vecchietto alcolizzato, che conosce le parole meglio di molti premi Nobel. Lui è stato un maestro assoluto.
Poi ultimamente dei critici letterari mi avvicinano a Pier Paolo Pasolini; un critico sosteneva che se Pasolini avesse oggi la mia età scriverebbe le cose che scrivo io. Credo siano esagerati ad accostarmi a lui, ma non nascondo che il piacere è immenso, considerando io stesso Pasolini il riferimento assoluto.
Poi le influenze derivano da maestri come Bukowski, Fante, Ellis e i più recenti Welsh, Frey e, a dire il vero, pochi altri.

 Il Nordest è, da parecchi anni, una sorta di laboratorio letterario. Moltissimi sono gli scrittori che sono nati, perdonami se ti parafraso, alla luce intermittente delle insegne dei suoi infiniti capannoni. Credi che possa essere possibile una qualche collaborazione fra chi scrive o la scrittura è un atto esclusivamente solitario?
 Non è possibile alcuna collaborazione.
Ci sono diversi scrittori da queste parti. Molti bravi, alcuni anche bravissimi. Hanno contribuito a dare un’altra immagine del Nordest più vera di come veniva descritto. Però raccontano la media società, accennano qualche critica al territorio, descrivono un Nordest che si evolve.
Io faccio altro. Racconto l’inferno che ho vissuto, la marginalità della vita estrema, la droga e la tossicodipendenza, la violenza di ragazzi senza limite. Il mio è un lavoro che nasce da dentro. Loro sono laureati, io ho la terza media. Loro si conoscono, io conosco solo gli amici di sempre. Loro organizzano spesso corsi di scrittura creativa, io scappo da ogni forma di regola o insegnamento.
Massima stima. Ma non ci possono essere collaborazioni.

Un’ultima domanda. Che cosa consigli a chi sente il bisogno di affidare alla parola scritta le proprie idee, le proprie gioie e, perché no, le proprie sofferenze?
 Consiglio sempre di lasciar perdere. Scrivere è molto doloroso, implica un viaggio dentro se stessi e spesso si scoprono i mostri sotterrati.
     Poi credo che gli scrittori debbano mettere in guardia gli “aspiranti”, tentando di farli desistere. Per lo scrittore debuttante è necessario superare ostacoli, scavalcare muri, mettere alla prova la propria resistenza. Questo è il primo grado di selezione, per dividere chi vuole scrivere per bieco interesse e chi invece per necessità vitale. Solo i secondi meritano di arrivare alla pubblicazione.
      Superato il primo ostacolo, passo all’unico consiglio valido: vivete, vivete molto. Perché bisogna vivere, prima di scrivere.

Nessun commento: