domenica 31 gennaio 2010

di 3/4-cinque giovani lettrici guardano cinque autori



Certo. Il libro, l'autore, l'ispirazione, la tecnica ecc. ecc. Spesso però si dimentica una cosa fondamentale: il lettore. Henry Miller scriveva che è necessario ritrovare quell'equilibrio fra lo scrittore (che si crede un artista) e il lettore (che è un artista in potenza). Costantino Leanti e Giuseppe Polimeni creano questa rassegna che sposta il punto di osservazione dall'autore al lettore. Anzi, alla lettrice. Anzi, alla giovane lettrice. In questa operazione mi ci sono ritrovato subito. In corsivo inserisco le parole del comunicato stampa dell'iniziativa, che, meglio delle mie, illustrano questa interessante e originale operazione culturale.
Naturalmente c'è anche il sottoscritto con il suo romanzo (Notte di nebbia in pianura-Manni Editori). E c'è anche una giovane lettrice che, di 3/4 lo guarda. E' Gloria Ghioni, curatrice di Critica Letteraria.
Gloria ed io facciamo da apripista alla rassegna giovedì 4 febbraio, alle ore 18, al bar dell'Università di Pavia.

Di ¾ , con uno sguardo non frontale, ma, appunto, portato di traverso, da una posizione non convenzionale, ma forse per questo più appassionante e nuova: così si presenta la rassegna pavese di lettrici e scrittori, che la Biblioteca Bonetta in collaborazione con la libreria CLU propone alla città. Gli autori sono invitati in uno spazio non convenzionale, quello del Caffè dell'Università di Pavia, a un orario insolito, le 18. Lì si presentano con la loro opera allo sguardo "di traverso" di cinque giovani lettrici, che dialogano sul libro e sulla scrittura, su tutto ciò che l'osservazione di quelle pagine e l'incontro con l'autore hanno suggerito loro. Gli studi letterari, la passione per il teatro, per la lingua suggeriranno percorsi e prospettive meno evidenti e senz'altro personali.
Non sarà semplice intervista, ma dialogo intorno a temi e scelte stilistiche, invito per entrambe le voci a un confronto su problemi e racconti, con la possibilità di scoprire l'interprete in ciascun autore e di ritrovare l'autore in ciascun lettore.
Di ¾ è un tempo, quello non pieno di una quasi-ora, del movimento delle lancette che non arrivano a chiudere l'unità, ma si fermano a un tratto del cammino: così è anche la lettura che la rassegna propone, non conclusa, volutamente aperta, con lo spazio e il tempo per le domande, per il silenzio e per la lettura di ciascuno.

venerdì 29 gennaio 2010

Holden Caulfield e il Tom Collins

Per preparare un Tom Collins servono due parti di gin, una parte di succo di limone fresco, qualche goccia di sciroppo di zucchero e soda.
Ne Il giovane Holden se ne parla cosi: "Il bar stava chiudendo, sicché pagai in fretta e furia due liquori a testa per loro prima che chiudesse, e ordinai altre due coca per me. Quel dannato tavolo era uno spicinio di bicchieri. Una delle racchione, Laverne, continuava a prendermi in giro perché bevevo soltanto coca cola. Aveva uno squisito senso umoristico. Lei e la vecchia Marty bevevano Tom Collins - alla fine di dicembre, Dio santo! Non capivano un accidente. La bionda, la vecchia Bernice, beveva bourbon e acqua.
E se lo scolava che era un piacere, tra parentesi. E tutt'e tre non facevano che guardarsi intorno in cerca di divi dello schermo. Quasi non parlavano nemmeno tra loro. La vecchia Marty parlava piú delle altre due. Continuava a uscirsene fuori con quelle barbosissime frasi da mezza calzetta - chiamava il gabinetto “lo stanzino delle pupe”, per esempio - e quando quel povero vecchio clarinettista malandato si alzò in piedi e improvvisò un paio di ghirigori di jazz freddo, lo trovò veramente fantastico."
Ieri ne ho scritto qui.
Oggi ne parla anche booksblog.
Mi berrò un Tom Collins.

giovedì 28 gennaio 2010

J.D. Salinger

Che poi, quando avevo iniziato a leggerlo, non è che fossi proprio così giovane. Ero già abbastanza "rovinato" dagli affanni quotidiani, che, se li sommi uno per uno, ti danno alla fine la misura di quello che ti sei abituato ormai a sorbire. Io, i suoi libri, alla fine me li ero letti tutti. E non è che poi ci avessi visto dentro da subito grandi cose, eppure ero già abbastanza smagato dalle tonnellete di pagine che mi ero letto fino ad allora. Poi, un giorno, mentre passavo per le strade di una Milano nebbiosa, in attesa di arrivare alla Centrale, improvvisamente avevo capito. Avevo capito che non era necessario disperarsi o prendersela con la vita. Bastava invece fermarsi un momento, sedersi, guardarsi attorno e ridere sotto i baffi, tanto per far capire che tu, alla fine, lo avevi capito che era tutta una gran presa per i fondelli e che, comunque, non era nemmeno il caso di starlo a gridare. Bastava saperlo. E ridere sotto i baffi. Questo, alla fine, mi hanno insegnato i suoi libri.

Dickens, il pasticcio di coniglio e Stefano Bonilli

Ma quanto si mangia (e si beve) nei romanzi di Dickens! Nell'Oliver Twist, il sanguinario Bill Sykes, tra un crimine e l'altro, riesce a gustare frettolosamente, tra le altre cose, un pasticcio di coniglio, mentre sogliole, pasticci di carne e cavolini di Bruxelles fanno compagnia ai pranzi che David Copperfield organizza per i suoi amici. D'altra parte rhum, zucchero, succo di limone e acqua calda creano una delle bevande più apprezzate dall'umore incostante del signor Micawber. Ma anche le ovattate stanze delle residenze universitarie di Cambridge, sempre un po' in penombra e vagamente profumate di legno antico e dorsi di libri, e che spesso fanno da sfondo alle azioni vagamente decadenti dei romanzi di E.M. Forster, sono spesso teatro di improvvise cene fra studenti, le cui portate potrebbero essere sempre degne comunque di attenzione da parte di scafati gourmet. E che dire del rimedio che il medico prescrive a Des Esseintes per curarne lo stato di prostrazione, in A rebours, di Joris Karl Huysmans?
Ho letto per anni il Gambero Rosso. Tra gli scaffali della mia libreria tengo in evidenza il dvd di Mondovino, il film documentario di Jonathan Nassiter, presentato a Cannes nel 2004.
Sarà perché dalla pianura, in meno di mezz'ora, arrivo in Monferrato o in Oltrepò. Non lo so.
Oggi, comunque, leggo spesso il blog di Stefano Bonilli. Si parla di gastronomia. Si parla anche di libri.
Come in un romanzo di Dickens.

lunedì 25 gennaio 2010

England made me

-Se lasciassero fare a me, gliela farei vedere io!-
Alto, elegante, brizzolato. Con un ricordo di capelli biondi. Porta con disinvoltura il peso (peraltro molto leggero, date le sua capacità economiche) di due famiglie con figli al seguito.
La prima moglie lo ha costruito. La seconda lo ha divertito. Si resta, forse, in attesa di una terza. Magari per la vecchiaia, comunque non così lontana come vorrebbe far credere.
-Ma lei lo sa cosa mi ha detto ieri il primo industriale della Lombardia?-
Le riunioni di lavoro differiscono dalle cene di lavoro perché, nelle seconde, la bile in eccesso trova almeno un po' di cibo da aggredire.
-Guardi, mi ha detto, non mi faccia parlare.-
Sono le stesse frasi che Duilio Del Prete dice a Giancarlo Giannini nell'episodio L'ospite, dal film Sesso matto di Dino Risi.
Il film è del 1973. Il dialogo che ascolto (che sono costretto ad ascoltare, ma la vita riserva sempre interessanti sorprese) è contemporaneo.
Mi riaffiora alla mente il titolo di un romanzo. E' un esercizio che faccio ormai quasi in automatico. Un'àncora di salvezza che, finora, mi ha sempre salvato.
Anche in quel romanzo si parla di affari, industria, mercato. E' un romanzo di Graham Greene. Si intitola England made me.
In italiano il titolo è stato tradotto in un altro modo. E ancora una volta il titolo di un libro può racchiudere ben più dell'essenza del libro stesso, sino a ricomprendere passato, presente e, forse, futuro.
In italiano infatti il libro si intitola I naufraghi.

domenica 24 gennaio 2010

L'intervista fantasma o il fantasma dell'intervista

Capita di essere oggetto di interviste che mai, per una ragione o per l'altra, vedranno la luce. Chi ti fa le domande si trasforma così in un fantasma che fa perdere le sue tracce, lasciando dietro di sé il lontano, ma comunque inquietante, rumore sordo delle catene che ogni fantasma che si rispetti trascina per castelli e dimore.
Quindi ho deciso di far rivivere questa mia intervista fantasma, concessa tempo fa ad un intervistatore (o intervistatrice) fantasma che, volatilizzatosi, ha trasformato anche me, e le mie risposte, in spettri persi nella cartella documenti di qualche pc a me sconosciuto.
Naturalmente taccio il nome dell'intervistatore (o dell'intervistatrice) poiché, una volta trasformatosi in fantasma, tale è giusto che rimanga. I contenuti sono forse un po' datati. Ognuno di noi è plasmato nelle sue convinzioni dallo scorrere del tempo. Ma per un fantasma lo spazio-tempo non è rilevante.
Nel frattempo credo che due opere di Henry James (entrambe pubblicate da Einaudi) siano particolarmente indicate per questo post: Giro di vite e Racconti di fantasmi.

Per lei cosa significa scrivere?
Sono convinto di una cosa: se si è in pace con se stessi e con la realtà che ci circonda, non credo che si possa sentire l’esigenza di scrivere. Scrivere è per me la possibilità di far risaltare le contraddizioni e gli aspetti inquietanti, anche se banali, che si nascondono tra gli anfratti della nostra vita quotidiana. Quando scrivo mi sento bene, perché assumo una posizione di osservazione che mi permette di staccare momentaneamente dalla realtà.
Quali sono i suoi libri del cuore?
Sono troppi. Leggo moltissimo da sempre. Credo che leggere sia l’unica possibilità che si ha se
si vuole imparare a scrivere. Più che libri posso citare autori. Ho amato moltissimo Dürrenmatt, Borges, Dostoevskij, Nadine Gordimer, Don de Lillo, Fenoglio tanto per citare alcuni di quelli che mi hanno influenzato di più.
Il libro più bello che ha letto negli ultimi tre anni?
E’ un libro che mi ha colpito moltissimo per le problematiche esistenziali terribili che tratta. E’ un romanzo di Graham Greene: “Il nocciolo della questione”.
Qual è il rapporto con la sua regione e con la sua terra?
Direi che rappresenta il punto originario della mia attività di scrittore. Sono nato e abito in Lomellina, che è quella parte della Lombardia occidentale incastonata nel Piemonte. E’una zona di pianura, piena di fiumi, torrenti e risaie. Per me la pianura è il luogo letterario per eccellenza. La pianura è aperta da ogni lato. Non ha difese. Ci puoi mettere tutto e ci puoi far accadere di tutto. E non è detto che, di quel tutto che ci metti, se ne possa poi mantenere il controllo.
Il suo rapporto con la sua città?
La mia città non è una città. E’ un piccolo paese di milleduecento abitanti. E come tutti i piccoli paesi della provincia italiana sta subendo velocemente troppi mutamenti e non tutti positivi. E’ un paese di pianura e, per quanto riguarda gli aspetti della creazione letteraria, valgono le stesse cose che ho detto prima. La fortuna, per chi scrive, è che i mutamenti, anche se negativi, hanno tutti una forte dignità narrativa. Ma non sono sicuro che, alla fin fine, questo possa essere consolatorio.
Come è arrivato alla pubblicazione del suo lavoro?
Solita trafila. Frequentazione di uffici postali per spedire il manoscritto alle case editrici che ritenevo più in sintonia con le tematiche che tratto. Rifiuti (pochi), silenzi (tanti). Poi la lettera del mio editore e la pubblicazione. Il tutto, come si può vedere, nella norma.
Ha frequentato corsi di scrittura creativa?
No.
Ritiene siano utili?
Non credo che possano creare dal nulla uno scrittore. Scrivere è un po’ un dono di natura. Se si va all’Accademia di Brera, bisognerà pur essere capaci di disegnare già da prima. Certamente possono essere utili per affinare e migliorare le proprie capacità, che però, devono essere già presenti.
Quale ritiene sia l’aspetto più complesso della scrittura narrativa?
La narrativa, o meglio, come si diceva una volta, il romanzo “borghese” dell’Otto-Novecento non solo ha dato tanto, ma ha dato tutto. La vera difficoltà oggi sta nell’inventarsi un modo interessante per essere visibili e per essere letti, stando molto attenti a non cadere nello sperimentalismo fine a se stesso.
Come scrive: a penna o al computer? Di giorno o di notte? Segue “riti” particolari?
Scrivo al computer. In genere alla sera tardi, ma ho scritto anche in altre ore della giornata. Per quanto riguarda eventuali “riti” particolari, semplicemente non ne seguo.
Come è nata l’idea di scrivere il suo ultimo libro?
Sono molto legato alla mia terra, nel bene e nel male. Credo che si debba preferibilmente scrivere di ciò che si conosce e ambientare le storie che raccontiamo in luoghi che ci sono familiari.
Di conseguenza ho scritto una storia che ha per sfondo la pianura che, per i motivi che ho spiegato prima, è per me il posto ideale per una storia inquietante.
Preferisce cimentarsi col racconto o nelle poesie?
Preferisco alla lunga scrivere racconti. Ho iniziato la mia attività di scrittore proprio componendo racconti. Per la poesia sono purtroppo negato. Penso che un buon poeta possa anche essere un buon scrittore. Raramente succede il contrario.
Ci da una definizione dell’uno e dell’altro?
Il racconto e la poesia sono come due scrigni. Nel primo, a volte, si nasconde un romanzo; nella seconda si nasconde sempre un’emozione.
Come ha scelto il titolo del suo libro più recente?
E’ stato un felice incontro fra una mia intuizione e un successivo affinamento del mio editore.
Ha altri progetti in cantiere?
Sì, ma essendo molto scaramantico, preferisco non parlarne.





giovedì 21 gennaio 2010

Alec Guinnes, Smiley, la tangenziale di Milano e l'onorevole scolaro

Un autogrill di notte, sulla tangenziale di Milano. Molti anni fa. Luci al neon che, senza alcuna illusione, tentano stancamente di creare un'oasi artificiale tra campagne slabbrate, asfalto e pneumatici. Allora come oggi. Esattamente. Nulla cambia mai, nell'idea notturna del deserto periferico di una metropoli fintamente viva. Allora terrificato, nell'immaginario collettivo, dall'idea di violenze viralizzate da un qualche poliziottesco all'italiana. Oggi reso orribile, nello stesso immaginario, dall'idea comoda di un confronto tra diversi.
A volte succede. Succede di comprare un libro in un autogrill. Specie di notte. Quasi a marcare, con la certezza tranquilla della parola scritta, il territorio confuso e spaventato della nostra (ir)realtà quotidiana.
L'onorevole scolaro è un titolo che sa subito di Oriente, di oppio, di Indocina. Così lontano dalle nebbie londinesi del Circus. Mi affascina l'idea del dilettante. Mi affascina l'idea di colui che viene arruolato per giocare una parte più grande di lui. Consapevolmente.
Nelle stesse notti di quell'autogrill al neon, vagava, per le televisioni private di allora, una serie tv inglese, ispirata proprio alla trilogia de La talpa.
Smiley lo interpretava Alec Guinnes. E, tra i suoi collaboratori, uno lo faceva Michael Billington (il colonnello Paul Foster della serie UFO).
Ho sempre pensato alla faccia seria di Guinnes quando John le Carrè, descrivendo il rapporto tra Smiley e la moglie bella e infedele, la fa definire, nel dialogo fra due personaggi, come la sua dea puttana.
Anche Jerry Westerby è attratto dalle sue dee puttane. Forse un po' come tutti noi. Jerry Westerby è l'onorevole scolaro, la spia irregolare, il dilettante che gioca consapevolmente un gioco più grande di lui.
Jerry Westerby regala una copia del Candido di Voltaire ad un contrabbandiere di oppio. Jerry Westerby va in missione portando sempre nella sacca qualche romanzo di Joseph Conrad e di Graham Greene.
Una notte. Un autogrill deserto. Un libro. Sulla tangenziale di Milano.

lunedì 18 gennaio 2010

Giorgio Luzzi, lo Sciame di pietra e la città in riva al fiume

C'è sempre qualcosa che ci unisce ai luoghi che ci sopportano come abitanti più o meno stanziali o come passanti più o meno frettolosi. Noi i luoghi li influenziamo, nel bene e nel male. E i luoghi influenzano noi, le nostre azioni, i nostri pensieri, altrettanto nel bene quanto nel male. Come il paesaggio che sta alle spalle delle figure in primo piano di un affresco rinascimentale o di un quadro del Seicento o del Settecento, è portatore, nell'inquietudine della sua apparente staticità, di reconditi significati e alchemiche verità, così ciò che noi siamo è inscindibilmente legato ai paesaggi che i nostri occhi, le nostre menti, vedono o sono costretti, a volte loro malgrado, a vedere.
Le parole che nascono dal vedere, o dall'essere costretti a vedere, vanno a creare, una volta scritte, uno specchio che utilizziamo per riflettere la nostra immagine e, se ci riusciamo, se abbiamo fortuna, le immagini degli altri. Un gioco di specchi che riflette a sua volta, forse, l'immagine di Borges, riflessa a sua volta da un altro specchio che riflette immagini all'infinito.
Per E.M. Forster è la storia che è in movimento, mentre l'arte è ferma. Il compito di chi usa la parola scritta (come scrittore o lettore ha poca importanza) non è tanto quello di creare specchi, ma di ridare una pennellata d'argento a specchi già presenti, ma compromessi nella loro capacità di riflettere immagini.
Ho conosciuto Giorgio Luzzi a Torino, alla Fiera del Libro, dove e quando ebbe la bontà e il coraggio di presentare un mio libro.
Giorgio Luzzi ora arriva nella città in riva al fiume o forse vi fa ritorno. Non lo so. Non so che cosa lo leghi, o lo abbia mai legato a queste nebbie. Se ma vi sia stato un motivo. Ma c'è un modo per scoprirlo.
Bianca Garavelli ed il sottoscritto ne discuteranno con lui, che presenterà il suo ultimo libro di poesie: Sciame di pietra (Donzelli Editore).
Mercoledì 27 gennaio, a Pavia, alle ore 18, presso la Sala Conferenze del Collegio Santa Caterina da Siena, in via S. Martino 17/A.

giovedì 14 gennaio 2010

La cascina, Ugo Mursia e il feuilleton

Dai muri scrostati se ne esce un colore neutro, che sa di solitudine e che si unisce, in un'unica piattezza, con il grigio del cielo di un tardo autunno già freddo. I quadrati delle case dove, una volta, nell'afa estiva tra sanguisughe e zanzare, alloggiavano le mondine, costruiscono solitarie postazioni, perse in un cortile giallo di fango. Tutto attorno, come una fortezza presa d'assalto ed espugnata da tempo, il ricordo rossiccio del muro di cinta in pietra rossa.
Una luce, nel fondo di una chiesa parrocchiale deserta, denuncia la presenza di un presepio. Anticipo di un Natale forse di nebbia. Le abitazioni portano sulle facciate il verde di un muschio che altrove farebbe tanto Old England, ma che qui tradisce abbandono. Auto frettolose sfrecciano sul grigio dell'unica strada.
Mi guardo intorno e, pian piano, lentamente, la vedo. La vedo la gente che si affolla attorno al carretto di un libraio ambulante. Un libraio che porta le puntate dei romanzi di Hugo (nel dialetto delle mie parti, fino a qualche tempo fa per indicare un bambino irrequieto gli si diceva sei un Jafer, storpiando il nome del cattivo Ispettore Javert), dei romanzi di Stendhal, di Dumas, di Flaubert, della vogherese Carolina Invernizio (mia nonna parlava ancora con terrore de Il bacio di una morta). Una cultura ambulante che, nel trasmettere feuillettons e storie, sedimentava un sentire comune. Fatto di libri e, cosa ancor più importante, fatto di storie.
Passepartout è il nome del servo-camerire-alterego-doppelganger di Phileas Fogg.
Ugo Mursia Editore ne prende a prestito il nome per il suo bellissimo progetto.
E' un progetto quasi fuori dal tempo. Ed è per questo che mi piace.
Anch'io, quel giorno, in quella cascina abbandonata, sono stato fuori dal tempo.

martedì 12 gennaio 2010

Eric Rohmer

Il buio di certi giorni te lo porti dietro anche con il sole. Come, a volte, le azioni e i pensieri si perdono nel latte grigio della nebbia.
Il giallo di certe giornate estive poi, si stempera nella foschia dell'afa. Così come il rosso dell'ira ci opprime, per poi perdersi nel verde di un'invidia che ci intossica, per lasciare il passo al giallo di una rabbia che si cronicizza nell'anima.
Ho sempre pensato che lo stillicidio quotidiano dei nostri attimi, fosse inesorabilmente segnato dai colori. Il nostro perderci nei giorni è segnalato da bandiere che ne tracciano il percorso. Così come gli eserciti di Tamerlano usavano bandiere colorate per scambiarsi messaggi nel corso della battaglia.
A volte, per comprendere i colori delle nostre vite, ci si rifugia nelle parole di un libro. Spesso ci si nasconde di fronte allo schermo di un cinema.
Ho scoperto i film di Eric Rohmer molti anni fa. Mi piacevano le sue storie. Semplici di una semplicità che non celava affatto gli affanni complessi del parlarsi. Mi piacevano le sue donne. Con il sorriso tenue. Con gli occhi disillusi. Semplici di una semplicità impenetrabile.
Eric Rohner ha dipinto lo scorrere dei nostri attimi con colori che hanno la levità di un pastello.
Ma una levità dura. Forse senza speranza. Forse, in qualche modo, ci ha insegnato a vivere.

sabato 9 gennaio 2010

La sposa d'Italia

Una volta c'era più nebbia. Nella città in riva al fiume (quella della mia giovinezza universitaria) l'arancione notturno dell'illuminazione pubblica la faceva apparire di un ruggine opaco. Nella spericolata e ingenua notte da matricola mi apparve su un muro una scritta, fatta con la vernice rossa: La sposa d'Italia in viaggio di nozze tradita dal suo entusiasta pubblico è. Promette vittoria vittoria vittoria. Juve Juve Juve.
Passione calcistica? Tifo? Certo. Ma qualcosa di irreale se non di claustrofobico, per non dire tragico, era nascosto in quell'elucubrazione ubriaca. L'urlo di un folle che straparlava di una sposa tradita e per di più in viaggio di nozze, apriva la porta ad un mondo inquieto, se pur banale, di faide e di orrori quotidiani.
La città in riva al fiume è stata per me (e lo è tuttora) un ricettacolo di storie inquiete da raccontare.
I portici dell'università, umidi di freddo d'inverno e torridi di calore d'estate, nascondono un museo di reperti anatomici che invita al tranquillo orrore della scienza ottocentesca, fatto di morte, di etere, di carrozze nere e bastoni col pomello d'avorio.
Un sottile filo rosso (rosso come il sangue) univa (e unisce) per me, tutto ciò a quella scritta sul muro.
Ci sono passato davanti qualche tempo fa. La scritta non c'era più. Qualcuno (o qualcosa) l'aveva cancellata.

venerdì 8 gennaio 2010

Full metal jacket e gli scrittori inesperti

L'ho già detto una volta quello che penso dello scrivere. Non del senso dello scrivere, come una volta mi disse un agente letterario e che non ho mai capito che cosa sia. Ma proprio dello scrivere. Dello scrivere e basta. E l'ho detto qui. Ho già anche scritto di Ferruccio Parazzoli e del suo Inventare il mondo-Teoria e pratica del racconto. E ne ho scritto qui.
Però...Nella vita (ahimè) c'è sempre un però.
Si va in cerca sempre di qualcosa e ci si imbatte in Samgha-i suicidati della società letteraria. Il sottotitolo (affermano i curatori) si rifà ad un'opera di Antonin Artaud. A me Antonin Artaud ha sempre lasciato un po' perplesso. Ma niente di che, per carità. Solo una questione di pelle. Un po' come quando incontri uno e dici: "quello ha la faccia dell'antipatico". Poi magari si rivela un gran simpaticone.
Su questo blog ti trovo questo post interessante: Piccoli consigli per scrittori inesperti, un decalogo?.
La parola Decalogo mi piace. Ma non perché abbia improvvise reminiscenze bibliche. Semplicemente amo moltissimo Krzyszof Kieslowski. Amo moltissimo la sua opera cinematografica. Amo moltissimo il suo, di Decalogo. A suo tempo ne lessi anche (e con grande appagamento) la sceneggiatura. Magari ne scriverò ancora.
Insomma, siamo sinceri. E' inutile nascondercelo. Siamo tutti scrittori inesperti. Leggiamo questi consigli dove, con il piglio del sergente Hartman in Full metal jacket, ci viene (bonariamente) detto: "qui non ci sono bianchi, neri, rossi o gialli. Qui nessuno conta un cazzo. Qui conto solo io."
Un bagno di umilltà serve sempre. Specialmente a chi fa lo scrittore (o presunto tale, come il sottoscritto). A me quel decalogo (quello del post) è servito.
Leggetelo anche voi.

lunedì 4 gennaio 2010

Miss Universo 1971

Ci sono destini che sembrano dover seguire strade già predeterminate. Altri che preferiscono imboccare invece vie sconosciute. Sconosciute forse anche ai loro stessi artefici, se mai un destino possa avere un artefice.
Georgina Rizk è bellissima. Lo sguardo sereno, i capelli lunghi e mossi, gli occhi splendidi.
La Beirut degli anni Sessanta e dei primi Settanta ce la ricordiamo come la città degli esilii miliardari di faccendieri europei, come la città sfondo ideale di un film di James Bond. Belle donne dalle gambe lunghe e dagli occhi vellutati, spiagge piene di bikini ingioiellati, uomini dallo sguardo duro che bevono martini.
La Beirut degli alberghi superlusso: il Saint George, il Palm Beach, il Vendome, il Martinez, il Cadmos, il Riviera, il Phoenicia. E poi lo scheletro dell'Holiday Inn, ancora da inaugurare, e che diverrà, per la sua posizione, un ambito covo di cecchini.
Una sera del 1971 Beirut segue alla televisione l'incoronazione a Miami di Miss Universo. Georgina Rizk diventava la prima Miss Universo libanese e, cosa ancor più importante agli occhi dei beirutini, la prima mediorientale in assoluto. Un attimo di frivolezza organizzata che si trasforma in un momento di riscatto. A volte l'identità nazionale passa anche attarverso i lustrini e le paillettes.
Se le tue radici ti costringono a vivere sul filo del rasoio, se tutta la società in cui vivi è comunque una farsa di plastica, anch'essa costruita sul filo del rasoio, la tua vita, e il tuo destino, difficilmente possono cambiare. E, a volte, le scelte possono sembrare in netto contrasto con la gabbia, anche se dorata, che il tuo destino ti ha costruito.
Immaginiamoci una via centrale. Una di quelle vie dell'eleganza che troviamo immancabilmente nelle grandi metropoli. A Beirut potrebbe essere la rue de Damas.
Una via centrale, elegante, che però diventa improvvisamente confine. Una via dove le vetrine delle boutiques si riempiono di sacchetti di sabbia e lo scheletro dell'Holiday Inn è finalmente diventato il covo di cecchini che doveva diventare.
E' un giorno del 1979. Un corteo di automezzi. Mercedes e Toyota. Sicuramente blindate. Canne di mitragliatori ai finestrini. Un corteo che a passo lento percorre rue de Damas. Forse proviene da Tall al-Za'tar, forse da Sabra o forse da Chatila.
Un'altra auto ferma ai lati della strada. Un'auto che esplode. Un'autobomba messa lì dal Mossad.
Bisogna uccidere il capo dei servizi di sicurezza palestinesi. Bisogna uccidere Alì Hassan Salameh.
E' dai tempi del settembre nero che lo cercano. Ora l'hanno trovato.
Tra le lamiere dell'auto distrutta, accanto al suo corpo ce n'è un altro. E' quello della sua compagna. Georgina Rizk.
Miss Universo 1971.

sabato 2 gennaio 2010

Iginio Lardani

Non mi sono mai piaciuti i personaggi principali e gli eroi. In un libro rimango affascinato dalle figure secondarie e nei film sono attratto dai caratteristi. Piuttosto che seguire una star, preferisco apprezzare chi fa bene il suo sporco e anonimo lavoro.
Una ventina d'anni fa mi capitò per le mani una rivista che si occupava di critica cinematografica. Non ricordo più come si chiamava e credo di non averla nemmeno più. E' una costante. Tutte le cose che mi ispirano visioni e storie, prima o poi scompaiono misteriosamente, così come, altrettanto misteriosamente mi si parano davanti (Borges troverebbe la cosa del tutto naturale).
Iginio Lardani non so dove sia nato. Ma il suo è un nome che mi sa di pianura e di appennino. E' un nome che mi sa di alessandrino, di vercellese, di tortonese, forse anche di oltrepadano o lomellino. Non so. E' un nome di confine.
Ci sono zone di confine tra le arti, dove solo un genio può creare. Iginio Lardani si era messo in una zona periferica del cinema. Aveva creato i più bei trailers del cinema italiano. Aveva creato un'altra arte a fianco di quella cinematografica.
In quella rivista c'era la storia della nascita del trailer di Queimada, che lui era riuscito a trasformare in un'opera autonoma, quasi vivente di vita propria.
Iginio Lardani è morto nel 1986. Proprio nell'anno in cui mi capitò davanti agli occhi quella rivista.

venerdì 1 gennaio 2010

Roba che neanche nei romanzi di Asimov

Vite regolate da convenzioni. Sono le nostre. Tempi sottolineati da passaggi simbolici, portatori di valenze più o meno occulte. Sono i nostri. Certo, è il primo giorno di un nuovo anno. Certamente, i nostri calendari sono basati su elementi astronomici e scientifici. Sono lo specchio del nostro universo. Ma siamo noi che diamo loro una valenza simbolica legata al passaggio, legata al cambiamento.
In realtà non accade nulla.
Il nostro presente ci rende per forza di cose miopi. I Bizantini non credevano che la scienza e la tecnica potessero avere uno sviluppo. Per loro era tutto presente nella loro contemporaneità. E non c'era bisogno di nulla. A Roma, nel XVII e nel XVIII secolo si svolgevano delle gare di poesia, che vedevano coinvolti i maggiori poeti dell'epoca. Non un nome di quelli è rimasto nella memoria della nostra letteratura, mentre Foscolo, Parini e Alfieri, all'epoca, a quelle gare non li facevano nemmeno partecipare.
Il nostro passato è costruito nel presente. Il nostro futuro è costruito con i nostri desideri.
Girovagando sul web ho trovato questa frase: 31/12/2009 una data che cinquant'anni fa si trovava solo nei romanzi di Asimov.
Quando ero piccolo i prototipi delle automobili (quelle che, per inciso, avremmo dovuto usare oggi) erano simili ad astronavi. Mentre la serie UFO portava 1980 come data di un futuro quasi irraggiungibile, ma i suoi personaggi indossavano giacche (gli uomini), minigonne (le donne) e capigliature come nella swinging London.
Ora cominciano gli anni dieci. Poi verranno gli anni venti e i trenta e i quaranta, ognuno con i suoi tipi di scarpa, di automobile, di taglio di capelli, di modi di dire, di guerre. Tutto già visto.
Roba che neanche nei romanzi di Asimov.