mercoledì 30 giugno 2010

Quando il noir incontra il territorio: L'ultimo giorno felice, di Tullio Avoledo (Verdenero)

Alcuni titoli della collana Verdenero, delle Edizioni Ambiente, sono in corso di pubblicazione da parte di Einaudi. Tra questi L'ultimo giorno felice, di Tullio Avoledo. Proprio con questo volume, Tullio Avoledo vinse (ex aequo con Vito Bruno e il suo Il ragazzo che credeva in Dio, edito da Fazi) la V edizione del Premio Letterario Tracce di Territorio. Nell'occasione di questa collaborazione tra Verdenero ed Einaudi, pubblico la motivazione che scrissi per la vittoria del romanzo di Avoledo.


La terra, l’acqua, il passato, il presente, la vita. Le vite. Le nostre vite.
La terra, quella fatta di sabbia, di sassi, di polvere, sulla quale ogni giorno poggiamo i nostri piedi distratti, è forse l’unica cosa che ci rimane. Su questa terra camminiamo trascinandoci dietro il nostro passato, fatto di sconfitte, di umiliazioni, di insuccessi.
E, appoggiandoci altrettanto distrattamente a questo passato, contaminiamo anche il nostro presente. E lo contaminiamo con il nostro disprezzo, anche questo distratto e forse, proprio per questo, senza speranza.
Chi scrive sa che le parole sgorgano dall’amore e anche dall’odio per le proprie radici.
Tullio Avoledo ci porta tutti all’interno di una storia semplice e terribile.
Semplice nella sua descrizione, quasi assuefatta, come assuefatti siamo tutti noi, che queste storie le sentiamo ogni giorno, senza più alcuna emozione.
Terribile nel suo essere paradigma del male. Di quel male che ci ha ormai abituato alla sua presenza.

martedì 29 giugno 2010

Come Alessandro Momo

Come Alessandro Momo. Questa la prima cosa che mi viene in mente. Non voglio scomodare James Dean. Questo no. Ma Alessandro Momo, sì. Era un nome che girava spesso nei '70. Pochissimi film. Faccia da bambino. E un incidente di moto. Stop. Finita lì. E da lì è cominciato il mito. Non so se sia giusto. Ma è così che succede. A prescindere da quello che hai fatto. Ed entri in un pantheon di icone. E a te si penserà spesso, si citerà spesso il tuo nome, quando si inquadreranno gli anni attraverso i quali sei passato. Si dice che negli anni Quaranta Pietro Secchia si lamentò con Togliatti perché L'Unità dedicava troppo spazio al calcio e al ciclismo. Togliatti rispose a Secchia che un vero rivoluzionario deve conoscere ed essere informato su quello che piace alle masse. Altrimenti è soltanto un rivoluzionario da salotto.
I reality sono altro da me. Non li sopporto. Ma devo sapere cosa succede attorno a me. Nel bene e nel male. Pietro Taricone da oggi entra, a suo modo, nel mito. Se del costume, del gossip, della televisione, non lo so. Comunque ci entra. 
Come Alessandro Momo.

venerdì 25 giugno 2010

Il Sagittario e Il Saggiatore

Sabato 5 giugno ho avuto l'onore di tenere una relazione qui. Nel corso di questo convegno dedicato a Pier Angelo Soldini ho conosciuto Marco Franceschetti, nipote di Soldini e vera e propria memoria storica del grande giornalista e scrittore di Castelnuovo Scrivia. Marco Franceschetti mi ha raccontato una storia. Una storia fatta di libri, di editori, di idee e di uomini e, forse, di destini.
Uno degli editori di Soldini fu Ceschina che, quando ebbe l'idea di creare una nuova collana, ne diede ovviamente al lui l'incarico. Soldini volle chiamare quella collana con il nome de Il Sagittario, volendo rendere omaggio così al segno zodiacale della figlia Lidia.
Nello stesso momento nasceva una nuova casa editrice. Che, guarda caso, decise anch'essa di chiamarsi Il Sagittario. E anche in questo caso il nome era legato ad un segno zodiacale: quello del suo fondatore Alberto Mondadori, figlio di Arnoldo. Tuttavia, poiché il nome trovato da Soldini per la nuova collana di Ceschina, era già stato registrato, questa nuova casa editrice fu costretta a mutare il suo nome. Da Il Sagittario si trasformò ne Il Saggiatore.
Ringrazio Marco Franceschetti per questa storia piccola, ma, a suo modo, grande.

giovedì 24 giugno 2010

Potresti anche dirmi grazie. Gli scrittori raccontati dagli editori, di Paolo Di Stefano (Rizzoli)

E' stato un sacco di anni fa che lessi da qualche parte (forse era L'Espresso, forse Panorama, ora non ricordo) la definizione di "repubblica dei libri". Nome esaustivo e consolatorio che, nell'accezione di chi scriveva, avrebbe accomunato, in una sorta di universo condiviso, tutti coloro i quali, in qualche modo, avevano a che fare con i libri. Tutti assieme appassionatamente: lettori, scrittori, editori, intellettuali veri o presunti. Tutti uniti in questa consorteria dove, secondo l'autore di quella definizione, ci si sarebbe riconosciuti a prima vista.
Il tempo che passa fa giustizia di molte cose. E giustamente ha fatto giustizia anche di quella. Se il tempo passa per le strutture (o sovrastrutture) della nostra società (altro termine bruttissimo, di derivazione sociologica un po' stantia), passa anche per ognuno di noi. Ed è passato, giustamente, anche per chi scrive queste righe. Che, a ragion veduta e dopo svariate esperienze, può ora tranquillamente affermare che di "repubblica dei libri" ne ha sentito sì parlare, ma non l'ha mai vista. E verrebbe da dire: "per fortuna". Gente, qui non esiste e non è mai esistita una repubblica di tal fatta. Ci sono i lettori, gli scrittori, gli editori, gli intellettuali veri o presunti. Tutti con le loro storie, le loro bassezze, le loro meschinità, i loro meriti. E basta. Credo che questo sia più che sufficiente. In tanti anni ho conosciuto lettori, scrittori, editori, intellettuali veri o presunti e francamente non li ho mai riconosciuti a prima vista. E credo sia veramente un bene. Un gran bene per ognuna di queste categorie. In tanti anni ho fatto in tempo a capire che i libri non servono a migliorare un bel niente.e chi lo crede è soltanto un illuso. I libri esistono solo perché l'umanità ha l'insopprimibile desiderio di raccontare e di raccontarsi. E credetemi, non è poco. Leggete questo libro di Paolo Di Stefano. Leggetelo. Perché, tra i nomi, le storie, gli aneddoti capirete proprio questo. Che ci sono persone che vogliono raccontare e altre che vogliono ascoltare i loro racconti. E c'è qualcuno, gli editori, che questo lo rende possibile, pur con tutti i limiti (imposti e anche autoimposti) del loro ruolo. Certo, Di Stefano parla di mostri sacri dell'editoria, personaggi che, a mio modesto avviso, per ogni scrittore scoperto, ne avranno magari affossati almeno altri cento più bravi di lui. Ma come si dice: "è l'editoria, bellezza!" (Non ricordo più chi, ma c'è, tra queste interviste, quella di un editore che se la prende con l'ego smisurato e l'autoreferenzialità dei blogger. Chissà perché? Mah).
Un Libro.
Potresti anche dirmi grazie. Gli scrittori raccontati dagli editori, di Paolo Di Stefano (Rizzoli).

martedì 22 giugno 2010

Sebastiano Vassalli a Pavia

Sebastiano Vassalli scende dalla sua pianura novarese e, seguendo il corso del Ticino, approda a Pavia.
Infatti, venerdì 25 giugno, sarà presente al Collegio Universitario Santa Caterina da Siena (via San Martino 17) per  presentare il suo ultimo romanzo Le due chiese, edito da Einaudi.
L’evento, aperto al pubblico, è in programma alle ore 16 e 30 ed è organizzato all’interno dei corsi del "Master in professioni e prodotti dell’editoria".
Lo scrittore sarà presentato da Roberto Cicala, editore di Interlinea.

Le due chiese, di Sebastiano Vassalli (Einaudi)

-Tutte le storie finiscono nei libri. E' il loro destino.-
E come uno storyteller, uno di quelli che Jack London incontrava nelle sue peregrinazioni e dai quali comprava i canovacci per pochi dollari, così Sebastiano Vassalli ci racconta una storia. Ma non è una storia qualsiasi quella che ci racconta. Perché le sue parole, la sue frasi, il suo narrare apparentemente ingenuo, ma profondamente indagatore, ci appartiene. E ci appartiene perché racconta di noi, di quello che siamo stati e di quello che siamo e saremo. L'inchiostro nel quale intinge la sua penna non è semplicemente un banale composto chimico. Perché quell'inchiostro è il nostro DNA. Quell'inchiostro è il DNA di un'intera nazione. Non è possibile non ritrovare se stessi in questo romanzo. Perché tutti i personaggi li abbiamo prima o poi incontrati e, cosa più importante, li abbiamo incontrati nelle storie dei nostri padri, dei nostri nonni, delle nostre famiglie. C'è una apparente leggerezza nel narrare di Vassalli; leggerezza che rende ancora più terribile le sofferenze degli uomini e delle loro vite; leggerezza che rende ancora più definitiva e senza appello la loro infinita sopportazione. Sopportazione: ecco la parola chiave. Non c'è provvidenza, non c'è destino, non c'è condanna o salvezza. C'è solo una grande, infinita, fortissima sopportazione.
Come un cronista medievale, Vassalli osserva e trascrive le vite degli uomini e delle donne, infuse sempre in quella che è la loro terra. Sono i monti, le valli, la pianura che, da sfondo immobile, si trasfigurano in un paesaggio con un'anima, in un paesaggio dell'anima. E quell'anima è indissolubilmente unita alle anime di chi quei monti, quelle valli, quella pianura abita.
Il tempo, inevitabilmente, porta tutto con sé. I ricordi, le gioie, le sofferenze. Porta con sé persino le tradizioni e le memorie.
Ma quei monti, quelle valli, quella pianura saranno sempre là. Qualunque cosa accada.
Un libro.
Le due chiese, di Sebastano Vassalli (Einaudi).

lunedì 21 giugno 2010

L'opera prima di uno scrittore: Storie dal fondo, di Massimiliano Santarossa (Edizioni Biblioteca dell'Immagine)

Il 14 settembre sarà in libreria il nuovo romanzo di Massimiliano Santarossa. Il titolo è Hai mai fatto parte della nostra gioventù? e sarà edito da Baldini Castoldi Dalai.
L'anno scorso il Premio Letterario Tracce di Territorio ebbe la felice intuizione di assegnare la menzione speciale per la sezione narrativa ad un giovane autore che i nostri osservatori tenevano d'occhio da un po' di tempo.
Quel giovane autore, che usava un linguaggio nuovo e utilizzava uno stile particolare per descrivere i propri luoghi, era proprio Massimiliano Santarossa. L'opera che venne premiata era il suo primo romanzo, Storie dal fondo, edito dalle Edizioni Biblioteca dell'Immagine.
Nell'attesa di leggere e di scrivere del nuovo romanzo di Massimiliano, riporto di seguito il testo che scrissi allora per motivare la sua menzione speciale.


Una terra è fatta di case, di alberi, di strade e di pietre. Ma una terra è fatta anche di donne e di uomini. Una terra è fatta anche e soprattutto dalle loro vite.
Un vero e proprio “paesaggio umano” è quello che ci passa davanti agli occhi.
Il “nordest”, vero e proprio luogo letterario, ci appare trascritto per mezzo di una serie di storie. Storie nel cui fondo si muovono personaggi che hanno dimenticato tutto. Che hanno dimenticato tutto quello che sono stati i padri e che hanno dimenticato tutto quello che loro stessi avrebbero potuto essere.
La dimensione umana ha bisogno della religiosità. E, quando si dimentica il Dio della speranza, si lascia la strada aperta al dio del denaro e del successo facile.
Massimiliano Santarossa non parla, ma lascia parlare. E lascia parlare l’ingenuità e la disperazione della sua creazione.
Dalla sua ha la lucidità. E non è poco.

sabato 19 giugno 2010

Beirut-Storia di una città, di Samir Kassir (Einaudi)

Si conclude (momentaneamente) qui il mio delirio libanese. Avevo iniziato con questo post e avevo continuato scrivendo di Ya salam! e di Beirut, i love you.
Ma i deliri non si possono fermare e allora...

E' possibile raccontare la storia delle battaglie, dei re e degli imperatori. E' possibile raccontare la storia delle moltitudini.E' possibile raccontare la storia di una nazione, di un popolo, di un villaggio. Samir Kassir racconta la storia di una città. Una città che racchiude ben più di una nazione, ben più di una battaglia, ben più di una moltitudine. Raccontare la storia di Beirut vuol dire cercare di dare un significato al nostro tempo. Vuol dire cercare di dare risposte a domande che incombono sui nostri destini. Perché Beirut è il punto zero della nostra storia. Perchè Beirut è il luogo in cui si intrecciano tutte le storie che influenzano il nostro presente. Perché Beirut è il luogo di convergenza di tutti quei conflitti religiosi, etnici, politici, militari che influenzano la politica mondiale.
Ma una storia deve essere raccontata anche con passione, con amore. Samir Kassir non si limita ad una analisi dei fatti. Samir Kassir scrive la storia delle strade, delle vie, delle pietre, delle case, dei palazzi. La Beirut di Kassir è una città viva, che pulsa. La sua narrazione non è un algido esercizio di storia geopolitica. Leggendolo, seguendo passo a passo le sue parole è come se anche noi camminassimo per le vie, ascoltassimo i rumori e le voci, fiutassimo gli odori e i profumi. Alla fine di questo libro le suole delle nostre scarpe saranno segnate dalla polvere del Libano. Samir Kassir non è mai reticente. Della sua città racconta tutto. E se un uomo è innamorato della propria città, ne può descrivere con levità anche i peggiori orrori. Samir Kassir (intellettuale lbanese di padre palestinese e di madre siriana di religione greco-ortodossa) incarna lo spirito cosmopolita e tollerante di una Beirut che forse non c'è più.
Samir Kassir è stato assassinato nel 2005. A Beirut.
Un libro.
Beirut - Storia di una città, di Samir Kassir (Einaudi).

giovedì 17 giugno 2010

Piangeranno gli occhi scuri delle ragazze? (Addio a Corso Salani)

Corso Salani è morto. Va detta così. Senza fronzoli. A lui sarebbe piaciuto. A lui che era riuscito a capire che la realtà e la finzione si compenetrano e si sostengono a vicenda. A lui che si metteva in gioco in prima persona. A lui che metteva in primo piano proprio quelle ragazze dagli occhi e dai capelli scuri. Quelle ragazze che ti facevano innamorare. Quelle ragazze che erano desiderabili per il solo fatto di esistere, di parlare, di soffermarsi pensose, senza che tu riuscissi a capire a cosa pensassero. Corso Salani, come Rohmer, osservava e descriveva e lasciava parlare. Ma, a differenza di Rohmer, non infondeva, nelle sue opere, quel tocco un po' moralista del francese. No. Corso Salani sapeva benissimo che la realtà andava filtrata dagli stilemi della narrazione. Ma conosceva così bene quella lezione da averla capovolta e da riuscire a far filtrare la narrazione dagli stilemi della realtà. Le ragazze dei suoi film non dovevano ricorrere a quei trucchi da avanspettacolo che hanno trasformato il nostro immaginario visivo in un triste bordello. Le sue ragazze erano belle e desiderabili e terribili. Te ne innamoravi perché sapevi che erano più vere delle donne vere. Perché sapevi che, quando ami una donna, non la ami perché è bella, ma è bella perché la ami.
Piangeranno ora gli occhi scuri di quelle ragazze? Addio, Corso Salani.

mercoledì 16 giugno 2010

Punto Omega, di Don DeLillo (Einaudi)

C'è come una continua ostensione dell'ostentazione, nella produzione di DeLillo. Ostensione di un'ostentazione limitata e limitante, forse aperta alla speranza che la finitezza dell'uomo racchiuda, nel suo profondo, non certo le risposte alle domande fondamentali, ma quantomeno un'abitudine alla rassegnazione.
Il significato ultimo delle parole, l'uso controllato delle parole stesse, molte volte protagoniste, la presenza continua, in più di un romanzo, di performances artistiche che, nella loro apparente e algida immobilità, rimandano, come in un gioco di specchi, al contrasto con il fluire delle vite e dei casi. Sono questi i suoi strumenti. DeLillo è un grande voyeur. E il suo voyeurismo è tanto più inquietante, quanto più non cerca risposte. Perché non ci sono risposte. C'è soltanto un rimando costante, un sapiente linkare gli aspetti del nostro quotidiano, che poi tanto quotidiano non è. I personaggi di DeLillo non sono mai persone comuni. DeLillo non segue il filo borgesiano di Paul Auster. DeLillo mette sempre in gioco artisti, galleristi, performers, raiders finanziari, docenti universitari, esperti dei servizi segreti. Anche i suoi personaggi più banali giocano i loro destini in contesti che sembrano usciti dalla reiterazione di un gossip che prende le mosse dai luoghi comuni televisivi e non.
Ma questa non è una sua debolezza, Tutt'altro. DeLillo ha imparato a fondo la lezione del romanzo borghese, più Ottocentesco che Novecentesco. DeLillo è un Dostoevskij, è un Flaubert, è un Maupassant che ha capito che, al posto di arrampicatori sociali in gibus e marsina, che si accompagnano a giovani e diafane ereditiere in crinoline, è necessario portare l'attenzione della narrazione verso quello che è il vero punto dolente della nostra contemporaneità: l'assenza totale di qualsiasi volontà.
DeLillo non descrive una società amorale. Non gli interessa. DeLillo si limita (restandone all'esterno) a prendere appunti. E questi appunti altro non fanno se non registrare il nulla. Ecco la sua finale ostensione dell'ostentazione. E' l'ostentazione del nulla. Di un nulla che tenta disperatamente di esistere, attraverso il rimando costante ad una contaminazione fra vita reale e immaginaria. I suoi personaggi vivono in quanto osservatori, in quanto parlatori, in quanto pensatori. Mai come produttori. Mai come costruttori di qualche cosa. Con Punto Omega DeLillo forse arriva al finale di un suo personalissimo lento apprendistato, di pynchoniana derivazione, che prende le mosse da I nomi, da Body art, da Cosmopolis, da L'uomo che cade. La storia, gli accadimenti politici  e sociali sono solo un pretesto per contestualizzare un percorso. Un percorso diametralmente opposto al Punto Omega di Teilhard de Chardin. Nel pensiero del teologo francese il punto d'arrivo è Dio, è il Cristo. In Punto Omega, la scena dell'installazione artistica (affascinante reiterazione della poetica di DeLillo) che vede Psyco filmato al rallentatore, apre e chiude la narrazione è ne è la soluzione. Nel mezzo c'è una vita irreale. Nel mezzo c'è solo il deserto. Il nulla. Il vuoto. Lo schermo, la finzione, hanno preso il sopravvento. Noi non siamo più tra gli spettatori. Siamo stati tutti quanti fagocitati dalla finzione. Ne siamo prigionieri. Al di qua dello schermo non c'è più nessuno. Se non un pericoloso demiurgo che è arbitro di quello che rimane delle nostre vite.
Un libro.
Punto Omega, di Don DeLillo (Einaudi).

martedì 15 giugno 2010

Rosso Floyd, di Michele Mari (Einaudi)

Avevano deciso di rischiare, all'Arcana Edizioni, quando, agli inizi degli '80, battezzarono una loro collana con il titolo Vessazioni. Erano i tempi del grande Riccardo Bertoncelli. E quella collana si richiamava, nel nome, a qualche cosa che, scrivendo e descrivendo di musica, sarebbe stata senz'altro mal sopportata dagli appassionati. Ma la musica, vessata dalla parola, non perde nulla, anzi migliora. E migliora sino al punto da diventare pretesto per trasfigurarsi in altro. In un altro più misterioso, più affascinante, più coinvolgente e più inquietante ancora della musica stessa. Questo è precisamente ciò che accade in Rosso Floyd.
Michele Mari compie un viaggio immergendosi nel suo (e nel nostro) cuore di tenebra. Compiendo un viaggio alla ricerca di ben più di un colonnello Kurtz. Fino alla scoperta di un non detto che, come La lettera rubata di Poe, se ne sta da sempre sotto gli occhi di tutti. Ma è proprio la lenta e cadenzata scoperta di quel non detto, che, come le Tre Madri di de Quincey che vegliano con amorevole sadismo sull'orrore del mondo, veglia a sua volta su un destino più che mai padrone delle vite dei suoi protagonisti, a significare il vero obiettivo ultimo di questo oggetto narrativo.
Maledetto come una fanzine ed ironico come un processo della Santa Inquisizione (non ho sbagliato; ho scritto proprio così: ma è questa l'affascinante cifra stilistica di Mari) Rosso Floyd raduna una sterminata schiera di personaggi, teorie, follie degne della miglior Amok Books. La ridda delle informazioni, che oggi sono reperibili nell'universo digitale, viene ordinata e resa pregna di significati da un mezzo cartaceo come il libro. Si realizza così, in modo interessante e forse inconsapevolmente provocatorio, l'inversione di quel flusso che si crede debba ormai sempre seguire unidirezionalmente la via dal cartaceo al digitale e non il contrario. Semplicemente affascinante. Il mezzo stesso (il libro) e le sue idee, assurgono a simbolo di un confronto mediatico che sembrerebbe a senso unico, ma che a senso unico forse non è. Il libro quindi (il libro inteso come piattaforma, mezzo, formato) che simboleggia, con questo confronto dall'esterno, il confronto fra realtà e mistero che sta all'interno della storia narrata.
Forse il libro stesso è parte di quel mistero, di quel non detto. Forse Rosso Floyd è a sua volta un simbolo da decifrare. Forse è una chiave. Forse noi non esistiamo. Forse i nostri pensieri non nascono dalle nostre menti, forse non esistono nemmeno. Oppure, come i Pink Floyd da Syd Barret, anche noi, e i nostri pensieri, siamo guidati e governati dai fantasmi.
Un libro.
Rosso Floyd, di Michele Mari (Einaudi).
Un film.
Pink Floyd The Wall, di Alan Parker, 1982.

lunedì 14 giugno 2010

Il lamento del turnista

Il vero problema non è il successo (ma quello vero; quello che ti fa avere i soldi per girare con l'aereo privato; quello che se sfasci una stanza d'albergo ti ringraziano anche e magari ti fanno un articolo sul giornale; quello che anche se hai cinquant'anni, ti fa inseguire dalle diciottenni che vogliono venire a letto con te). Il vero problema non è neanche l'insuccesso (ma quello vero; quello che ti fa cadere nell'anonimato più totale; quello che ti costringe, per vivere, a mollare chitarra, batteria e tutto il resto e ti fa finire in banca, in cantiere, alla guida di un furgone per l'eternità). No. I veri problemi non sono questi due. Non sono questi due.
Il Galmozzi ha quasi sessant'anni. Gira vestito di nero con bandana appresso. Lo vedi che un po' gli dà anche fastidio. Lo vedi. 
-Che poi il disco della Irene Grandi, quando l'hanno registrato in studio, su a Milano, lì al basso c'era il Galmozzi.-
Il muro scrostato perde i pezzi di calcina sul pavimento e c'è una puzza così forte di piscio di cane che ti convinci che è proprio il cane a pisciare sul muro e a far cadere i pezzi di calcina sul pavimento.
-Che un giorno lui, che aveva cominciato a suonare la chitarra per Fausto Leali e si facevano il giro delle balere, l'avevano anche chiamato a Londra. Che lui con il basso e la chitarra è sempre stato un genio.-
Il cane ha smesso di agitarsi. Adesso è proprio la sua puzza che si sente. La puzza di cane mai lavato. Quella puzza che si appiccica poi anche al padrone.
-Che lì a Londra, va a capire cosa è successo, se tu ascolti un paio di LP dei Pink Floyd, lo senti che c'è il basso del Galmozzi. Perché è così bravo che l'avevano chiamato in studio a coprire dei buchi.-
Il cane agita la coda. Puzza di cane. Piscio di cane.
-Che insomma, lì a Londra si era passato un bel po' di anni, e in studio era imbattibile. Ha registrato persino delle cose con Eric Clapton. Pensa te. E un tre volte, mi pare, in studio lo ha voluto anche Elton John.-
Guaiti e il grattare della porta. Finalmente il cane esce. Lui e tutto il suo puzzo.
-Che una volta che poi è tornato qua non c'è uno che non lo voglia per le registrazioni in studio. Adesso mi pare che ha appena finito con il Liga e mi ha detto che va a Napoli, non ho capito bene se per Pino Daniele o per Bennato.-
Il Galmozzi ogni tanto lo vedo alla stazione. Che prende un treno. Per andare a Linate o alla Malpensa. Vestito tutto di nero con bandana appresso. Aspetta il treno. La chitarra e il basso non è stato costretto a mollarli. Però aspetta il treno. Come un impiegato. Come un muratore che va in cantiere.

domenica 13 giugno 2010

Ci son giorni...

Ci son giorni che ti sembra che tutto vada come non deve andare. Ci son giorni che ti sembra che tutto, ma proprio tutto, non faccia altro che suonarti una musica stonata, una musica che ti svisa via le note della vita. E poi ci son giorni che ti capita di incontrare gente che la guardi in faccia e capisci subito che la pensa come te. E allora capisci che son quelli i giorni da ricordare, che son quelli i giorni che porterai con te finché campi.
Ieri c'è stata la cerimonia di premiazione della sesta edizione del Premio Letterario Tracce di Territorio.
I numeri sono importanti. Caspita se lo sono.
Quando Steve Hackett abbandonò i Genesis, i tre superstiti del gruppo incisero l'LP And Then There Were Three (E poi rimasero in tre). E i numeri sono importanti. Caspita se lo sono. E il tre è il numero perfetto e sei è un multiplo di tre e il Premio Tracce di Territorio ieri è arrivato alla sesta edizione. E sesta vuol dire sei. E l'avevamo creato in tre (Mino Milani, mio fratello e il sottoscritto). E ieri ci siamo guardati in faccia con Marino Magliani e con Michele Marziani e con Paolo Pedrazzi e Stefano Costa della Eumeswil. E abbiamo capito che la pensavamo tutti allo stesso modo.
Eh, ci son proprio giorni...

venerdì 11 giugno 2010

Intervista a Mino Milani

Non è facile parlare di Mino Milani. Almeno per me. Un semplice riassunto non sarebbe sufficiente. Troppe sarebbero le cose che andrebbero tralasciate. Per questo motivo indico due link: wikipedia ed Edizioni Effigie. Lì dentro c'è tutto, o quasi. E forse, quello che manca, è proprio quello che serve. So che Mino sarebbe d'accordo.
Termina con lui questo ciclo di interviste ai vincitori della VI edizione del Premio Letterario Nazionale Tracce di Territorio, la cui Giuria Letteraria è da lui presieduta e coordinata.
In una tarda mattinata di un freddo novembre di sei anni fa cominciammo, circondati dagli scaffali della sua libreria, a ragionare sulla possibilità di creare un premio letterario diverso dagli altri. Se siamo arrivati sin qua, lo si deve solo a lui.


I romanzi, i saggi storici, le sceneggiature per i fumetti, il giornalismo. Mino, tu sei stato, passami il termine, il primo autore multimediale. C’è un punto d’incontro che accomuna tutti questi campi?
Sì, credo. La decisione di fare quello che si vuole, senza paura.

Nella tua storia di narratore non ti sei mai chiuso in una torre d’avorio, né hai mai avuto paura di frequentare generi che, diversamente da oggi, potessero essere visti con sufficienza da una certa élite letteraria. Rispetto al noir o al giallo italiano o perché no, al romanzo storico alla Wu Ming, non ti senti, a ragione, un pioniere?
Non ci sono pionieri nella letteratura. Chi crede di esserlo si illude. Magari si diverte, ma è un po’ patetico. Quello che tu fai, in un modo o nell’altro, è già stato fatto.

Non so, penso a Fantasma d’amore, ma potrei pensare anche a tutti i libri della serie di San Siro. E così mi viene da riflettere sul fatto che tu sia stato un grande indagatore dell’orrore che si nasconde nella banalità del nostro quotidiano. Un nostro gesto, un nostro pensiero possono aprire orizzonti inquietanti? Possono formulare domande alle quali non vogliamo o non possiamo rispondere?
Credo, o temo, di sì. Un semplice gesto, un semplice pensiero possono essere quelli che danno alla tua vita un corso mai cercato, mai previsto. Forse è questo il bello della vita, se la vita ha un bello.

La Provincia Pavese, quotidiano al quale sei molto legato e che hai anche diretto, l’estate scorsa chiese ai suoi lettori di inviare un racconto legato al territorio della provincia di Pavia. In quell’occasione tu affermasti che dietro ogni abitante della provincia c’era una storia che aspettava di essere raccontata. Voglio ampliare questa tua dichiarazione e chiederti: ogni storia merita di essere raccontata?
Sì. Il problema è come raccontarla e come farla diventare storia di altri.

Sei stato definito "il cantore di Pavia". Quanto contano, per chi scrive, i luoghi, i territori, i paesaggi, le case, le pietre? E soprattutto quanto contano i sentimenti che nascono da questi luoghi, da questi paesaggi, da queste pietre? Dai luoghi che abitiamo e che vedono passare le nostre vite può nascere sì amore, ma anche odio?
Luoghi, territori, paesaggi, pietre, e quello che significano. La storia, insomma. Tutto mi nasce da qui o, nei momenti più duri, dal tentativo di non esserci più.

E veniamo a Jack London e a Joseph Conrad. Anzi veniamo a Martin Eden e a Cuore di tenebra. London e Conrad sono tra gli autori che preferisci. In particolare Martin Eden e Cuore di tenebra sono due viaggi attraverso il buio del nostro destino. In che modo ne sei stato influenzato?  Siamo noi artefici del nostro destino o ne siamo in balia?
Quei due grandi libri, (quei due grandi, London e Conrad) sono andati dritti al mio cuore, mi hanno fatto capire che cosa è  vivere, che cosa è scrivere, mi sostengono a ogni momento, con quella splendida invidia che m’hanno acceso dentro. Scrivere qualcosa che valga un poco di quanto hanno scritto loro! Quanto al destino, va bene, possiamo tentare di fare qualcosa per costruirci, e questo è già tanto. Ma il destino non si cura di queste nostre cose, e ci porta dove vuole.

Penso al tuo romanzo Due biglietti di sola andata, che lessi tempo fa. E ne approfitto per farti una domanda tecnica. Quanto conta il dialogo in una narrazione? È sufficiente a caratterizzare i personaggi?
Sì, è sufficiente. Guarda Shakespeare. Ma il romanzo pretende la narrazione, giusto e tu gliela dai.

Quando fai nascere una storia, la scrivi di getto o è necessario del tempo per interiorizzarla?
Getto o no, se la scrivi, l’hai interiorizzata. Diversamente non scrivi una storia, ma solo parole.

Negli anni Settanta si diceva che gli italiani non potessero scrivere romanzi gialli o noir perché era troppo forte l’influenza di Alessandro Manzoni. Direi che quella affermazione sia stata nel tempo sufficientemente smentita. Tuttavia non credi che si debba soprattutto guardare alla storia e non chiedersi mai se si stia scrivendo un giallo o un noir o nessuno dei due?
Credo poco o nulla ai generi; credo poco o nulla all’influenza di Manzoni sugli scrittori. L’avrà, se mai sui critici, che fanno anche loro il poco che possono. Non so se sia stata nel tempo sufficientemente smentita, come dici, l’affermazione che nega a noi italiani di scrivere gialli o noir: li scriviamo e basta, mafia, camorra e una schiera di commissari. E’ di moda. Non sono certo che li scriveremmo, se di moda non fossero. Non nasce un Chandler, da noi, nemmeno uno Spillane, nemmeno un Wallace. Uno Scerbanenco, se mai. Bravissimo, ma altro.

Nel ringraziarti, Mino, ti faccio un’ultima domanda. Che cosa diresti a chi ha un libro nel cassetto?
Di tirarlo fuori, cercare un editore e avviarlo al suo destino. Te ne ricordi? “Habent sua fata libelli.”

giovedì 10 giugno 2010

Intervista a Cristina Zagaria

Cristina Zagaria è giornalista, scrittrice e saggista. Come giornalista ha lavorato nelle redazioni di Bologna, Bari e Milano del quotidiano La Repubblica. Dal 2007 vive e lavora (sempre per La Repubblica) a Napoli. In questi anni si è sempre occupata di cronaca nera e giudiziaria, ma ha lavorato anche per le pagine locali e nazionali della cultura e della politica. Come scrittrice ha pubblicato per Dario Flaccovio e come saggista per Dedalo. Con Perchè no ha ottenuto la Menzione Speciale nella sezione narrativa della VI edizione del Premio Letterario Nazionale Tracce di Territorio.


Cristina, quanto conta nella scelta delle storie che decidi di narrare il tuo lavoro di giornalista?
Scrivo tutti i giorni e scrivo storie vere. Anche quando mi confronto con un libro, ho difficoltà a inventare. Invidio molto gli scrittori che si mettono a tavolino e costruiscono personaggi, trama, intreccio. Io ho la trama chiara davanti a me, i personaggi sono vivi, non devo costruirli, devo solo cercarli, studiarli, viverli e raccontarli. Anche quando scelgo “la” storia, lo faccio da giornalista:  cerco la notizia. In genere è un caso che leggo sui giornali e mi colpisce, ma mi lascia molti dubbi. Le storie dei miei libri, infatti, nascono sempre dalla voglia di chiarire i punti oscuri di una notizia. Come vedi il cerchio si chiude: punto di inizio e di fine è la cronaca. E anche durante tutto il lavoro di raccolta di materiale sono una giornalista. Solo nell’ultima fase mi dimentico il mio lavoro e sono scrittrice, se davvero esiste una differenza così netta.


Perché no è un romanzo di voci. Leggendolo si ha l’impressione di starci, in mezzo a quelle strade, in mezzo a quei quartieri. Privilegi molto il dialogo. E’ stata una necessità o una scelta?
Questo libro nasce da un atto d’amore verso Napoli. Mi piaceva l’idea che il lettore attraversasse Napoli come è accaduto a me....anche le parti in napoletano le ho inserite per ricreare il suono (a  volte straniante) che mi ha accolto i questa città. I PerdisaPop poi hanno una misura massima 128 pagine e con i dialoghi si corre più veloci, si racconta in presa diretta.

Come è nato Perché no?
E’ nato per caso. L’anno scorso ho incontrato Luigi Bernardi (editor Perdisa, e non solo...) al festival Nebbie Gialle. Lui mi chiede se ho una storia pronta. Mento. Dico di sì e gli racconto la storia di Daniele e Francesco. Gli piace subito. La storia l’avevo letta la mattina in treno, mi aveva subito colpito, ma non era ancora un libro. Lo è diventato. Avevo una gran voglia di scrivere di Napoli. E ...a un editor mai dire di non avere una storia pronta.

Hai uno stile molto asciutto. Disegni i tuoi personaggi con poche ma decisive pennellate e soprattutto non “entri” nel romanzo, ma te ne stai efficacemente in disparte, come una osservatrice. In questo senso, hai avuto delle influenze letterarie, dei modelli, o questa tua posizione nasce perché la trovi più funzionale alla storia che racconti?
Modelli? Mhh…diciamo che torniamo alla prima domanda. È il mio modo di scrivere, perché sono una giornalista, perché così scrivo ogni giorno. Mi piace che il lettore viva i personaggi, piuttosto che descriverli io. Mi sembra una scrittura meno invadente.

Che cosa leggi? Quali sono i tuoi autori preferiti?
Leggo tutto. Pochi gialli. Autori italiani tanti, passati e contemporanei. Ora sto scoprendo gli scrittori americani. L’elenco sarebbe lunghissimo.

Chi scrive è, anche inconsapevolmente, influenzato dai luoghi. Dai luoghi delle sua vita, ma anche da quelli attraverso i quali è passato, magari fuggevolmente. Quanta importanza hanno i tuoi luoghi nella tua scelta di narrare?
Ti dico solo che io non ho mai scritto di Taranto, la mia città, ma Taranto è in ogni mio libro.

Qual è, da scrittrice, il tuo rapporto con il mondo dell’editoria?
Con le case editrici con cui ho lavorato c’è subito stato un rapporto ottimo. Mi piace fare squadra, dall’editor, all’addetto marketing, all’ufficio stampa. Credo però che le case editrici medie, investano poco sulla comunicazione e sul marketing, rassegnate alla concorrenza con i colossi. Ed è un peccato.

Cristina, un’ultima domanda. Che consiglio daresti a chi ha un libro nel cassetto e da quel benedetto cassetto vorrebbe magari farlo uscire?
Miserere, il mio primo romanzo l’ho inviato a tutte le case editrici, via posta, senza conoscere nessuno. Io credevo in Miserere. Il consiglio è di credere nel proprio lavoro e inviarlo alle case editrici, i libri hanno una vita propria. Ovviamente, ci vuole solo un piccolo accorgimento: bisogna studiare prima il catalogo dell’editore a cui si invia un manoscritto, non si può mandare un saggio a una casa editrice che pubblica solo libri per ragazzi, o un libro di poesie a chi non ha una collana dedicata.

martedì 8 giugno 2010

Intervista a Michele Marziani

Michele Marziani è un giornalista, è un saggista, è un narratore. Ma non lo puoi classificare. Non lo puoi irregimentare in uno schema prefissato. Questa è la sua forza. Come narratore ha pubblicato, tra gli altri, La signora del caviale. Come giornalista e saggista ha curato i testi dei due volumi dei Sovversivi del gusto. Con I sapori della Terra di Mezzo ha vinto la sezione saggistica della VI edizione del Premio Letterario Nazionale Tracce di Territorio.

“Ho scritto a lungo di cibo e di vino, ma, onestamente, di entrambi non mi importa nulla. Viceversa mi interessa degli uomini, delle donne, della terra, della vita e dell’arte.”
Michele, inizio citando quello che hai scritto ne I Sovversivi del gusto, perché ritengo che mai citazione fu più condivisibile. Mi piace questa tua bellissima commistione di persone e di cultura. Ma quanta fatica fanno quegli uomini e quelle donne?

Sai che è leggendo che ho capito che il cibo e il vino possono raccontare i luoghi, la storia, le persone, la bellezza? Me l’hanno insegnato certi scritti di Giuseppe Fava, il giornalista ucciso dalla mafia, il fondatore del mensile I Siciliani, alcuni suoi reportage alle pendici dell’Etna, alla ricerca di sapori, di vini, di ricordi anche, che sapevano dipingere la Sicilia, la miseria, la sottomissione, la rassegnazione, l’umanità, il vigore, la bellezza, la meraviglia, la fatica, la contraddizione di una terra maledetta e bellissima. Attraverso quegli scritti incontrati per caso ho iniziato a leggere il mondo attraverso il cibo e attraverso chi lo produce.
A volte penso che fare bene l’agricoltore oggi sia ancora un mestiere da schiavo, da alzarti troppo presto al mattino, da arrivare a pezzi la sera e i conti magari non tornano. Poi però penso che gran parte della gente fa mestieri da schiavo, si alza triste al mattino, non riesce a parlare con i figli e già si è infilata in auto, sui treni ammassati di pendolari, entra in uffici sconfortanti e non produce niente che si possa toccare, vedere, annusare, mangiare, respira lo smog o l’aria condizionata. Vive ben peggio dei miei “sovversivi del gusto”. E a fine mese i conti non gli tornano uguale.
C’è una donna di Lomellina, Lia Caimo Duc, che produce riso biologico e sta tutto il giorno sul trattore mentre prima faceva la commercialista. Allora tu guardi la sua pelle cotta dal sole e le chiedi: perché lo fai? E lei dice: per stare a contatto con la realtà. All’inizio ho pensi che ti prenda in giro, lei così fuori dalla realtà. Poi capisci che ha ragione: i campi sono veri, non i computer, i numeri, i conti. Allora guardi la stessa pelle e la vedi bellissima.

Tu scrivi, come dici tu stesso, di cibo e di vino. Lo fai da giornalista, da critico ma anche da scrittore. C’è una prevalenza fra questi tuoi ruoli o convivono tranquillamente?

Direi che è impossibile farli convivere, almeno per me. Io sono stato vittima per almeno vent’anni di un grosso equivoco nel quale mi sono infilato da solo. Sin da ragazzo ho sempre voluto scrivere, non ho mai pensato di fare altro nella vita, mi è sempre stato naturale, come respirare. Così mi sono infilato in una redazione e ho pensato che scrivere volesse dire fare il giornalista tanto da fare del giornalismo la mia professione. Ma non è così: fare bene il giornalista significa informare, far sapere, spiegare a volte. A me interessava e interessa raccontare. E questo è un’altra cosa. Dentro a questo equivoco sono cresciuto, ho girato l’Italia intera in lungo e il largo, ho scritto tantissimo e alla fine ho capito che raccontare era altro. Così oggi, anche occupandomi di alcuni dei temi intorno ai quali ho scritto da giornalista, lo faccio in modo molto diverso. Per riuscirci ho dovuto cambiare mestiere: da qualche anno scrivo solo libri. Nei miei ultimi lavori di saggistica mescolo le parole con lo stesso stile narrativo che utilizzo nei romanzi. Credo nella superiorità della narrazione rispetto all'informazione. Oggi sappiamo tutto ma questo non ci rende migliori. Leggere buona letteratura mi aiuta ad essere un uomo migliore, le parole di grandi scrittori mi servono a comprendere meglio la realtà. Mi piacerebbe, nel mio piccolo, trasmettere qualcosa di simile. Anche quando scrivo un saggio.

Nel leggerti ho capito che tu guardi con gli occhi, analizzi con il cervello ma scrivi con il cuore. In fin dei conti in quelle storie di quel cibo e di quel vino, di quegli uomini e di quelle donne sei completamente coinvolto. Quanto c’è di te nelle tue parole scritte?

Beh, io scrivo quello che vedo, come lo vedo, senza pelle, senza filtri. E per vederlo lo vivo. Per rimanere nel campo del cibo e del vino: racconto di luoghi dove sono stato, di persone che ho incontrato, di persone con le quali ho condiviso il pane e le idee o magari ho anche discusso animatamente. Quindi parlo inevitabilmente di me, perché io lì ci sono. A volte guardo da lontano, a volte filtro con la mia biografia, altre volte mi unisco ad un coro. Scrivere e vivere per me sono la stessa cosa, lo so che a dirlo così fa quasi sorridere, specie in tempi cupi e cinici come quelli in cui viviamo, ma per me è così. Vivo e racconto, racconto e vivo, faccio il mestiere di mettere in fila le parole e dai fili di parole tiro le fila dei luoghi che attraverso. È come un gioco di specchi, imitando Perseo uccido la mia piccola Gorgone Medusa attraverso uno specchio e facendolo ritrovo, o spero di ritrovare, quella leggerezza di cui insegna Calvino nelle Lezioni americane.

La memoria, il tempo. Mi pare che spesso fai i conti con loro in quello che scrivi. Che importanza hanno per te?

Non c’è futuro senza memoria. E probabilmente neppure il presente. Mi piace indagare nel passato, scavare nella storia, soprattutto quella recente, a portata di mano e di testimoni. Fare archeologia della modernità. La memoria collettiva è somma dei ricordi di ognuno di noi e quindi la mia scrittura scava nel ricordo, il mio, quello degli altri. Perché non si dimentichi, quando io per primo tendo a dimenticare, a farmi travolgere da un presente che non so da dove venga. Uccidere la memoria credo sia il modo “migliore” per creare generazioni di persone che non capiscono. Ecco, io coltivo la memoria per capirla, la coltivo sapendola fragile, imperfetta, manipolabile, anche incomprensibile perché noi oggi, spesso, dei segni del passato non comprendiamo nulla. Il passato, per dirla come il geografo David Lowenthal, è una terra straniera, richiede, aggiungo io, la passione dell’esploratore.

Dai! Ti faccio una domanda di quelle che stroncano le carriere, ma te la faccio perché so che tu mi rispondi. Meglio Veronelli e tutto ciò che ha rappresentato o meglio il Gambero Rosso e tutto ciò che rappresenta?

Meglio Riccardo Bacchelli o Dan Brown? Credo che Dan Brown scriva egregiamente ma si possa fare benissimo a meno di leggerlo. Esattamente come il Gambero Rosso.
Se vivi in Italia non puoi non aver letto Il mulino del Po. Se ami il vino non puoi non ripeterti di tanto in tanto le parole di Veronelli, servono a darti la rotta a capire la strada: il peggior vino contadino è migliore del miglior vino industriale.

Un’ultima domanda. Forse la più impegnativa. Come si fa a preservare un territorio (appunto con il cibo, il vino, la terra, la vita e l’arte) senza trasformarlo in un simulacro della tradizione, ma tenendolo vivo?

Forse non barando e non fossilizzandosi intorno all’idea che ci siano delle radici da salvare. Gli uomini, come dice l’antropologo Marco Aime, hanno i piedi, non le radici. La storia è la stratificazione del tempo e delle genti, delle persone che l’hanno attraversata, richiede curiosità, attenzione e rispetto. La tradizione invece è spesso un’invenzione: una rappresentazione folcloristica della vita dei nonni scritta dai nipoti a proprio uso e consumo. Non preserva il territorio chi compra le rane cinesi o turche per proporle nelle osterie perché questa è la tradizione. Lo preserva chi sceglie di ridare vita alla terra, di abbandonare la chimica inutile, di permettere alle rane di vivere. Quelle sono le rane da offrire al viaggiatore. Amare la terra più del denaro, i viaggiatori più dei turisti, i libri più della televisione. Credo sia, banalmente la regola del buonsenso. Chi ama la propria terra la preserva ad ogni costo, non impedendo agli altri di entrare, ma rendendola viva e ospitale. Ma qui apriamo discorsi che portano davvero molto lontano. E io sono uno che racconta, non uno che sa dare risposte. 

domenica 6 giugno 2010

Intervista a Marino Magliani

Definire Marino Magliani uno scrittore del territorio è sicuramente riduttivo. Certo, lui stesso dice di avere quasi sempre scritto della sua terra, la Liguria. Ma le implicazioni della sua narrazione sono così profonde da trasfigurare il palcoscenico delle sue storie in un vero e proprio luogo dell'anima. Ha pubblicato, fra gli altri, per Sironi, Longanesi, Eumeswil. Il suo ultimo romanzo è Colonia Alpina Ferranti Aporti Nava, pubblicato per i tipi di Senzapatria Editore. Con Non rimpiango, non lacrimo, non chiamo (Transeuropa), scritto con Vincenzo Pardini, ha vinto la VI edizione del Premio Letterario Nazionale Tracce di Territorio.

Ogni narrazione non può prescindere dal tempo. Non può prescindere dal fare i conti con quella linea che porta le nostre vite da un punto ad un altro e che le tiene, forse, prigioniere. Nel tuo narrare cerchi sempre di fare i conti con lo scorrere del tempo, con quella linea che plasma le nostre vite. Nel tentativo, quasi, di domarla. La tua è una battaglia o una vera e propria guerra? E ne esci sconfitto o vincitore?
Sono per natura un perdedor, mi piace ripetermelo. Al momento del crollo, forse, ti fai meno male.

Fuggire da qualche cosa, da qualcuno, da qualche luogo è un pensiero o, forse, un desiderio che abbiamo tutti. E questo fuggire da qualche cosa, altro non è se non un tentativo di fuggire da se stessi. Ma la fuga, a volte, presuppone un ritorno. Alcuni dei tuoi personaggi fuggono da qualche cosa ma rimangono poi come sospesi, in un’attesa che unisce delusione e compiacimento. C’è forse la volontà di perseguire la fuga come fine a se stessa o c’è un luogo dove troveremo ciò che cerchiamo?
La fuga è un disconoscersi creativo. Amo dire che sono fuggito da casa da bambino, un po’ troppo presto, un vizio. Non fuggiamo tutti. La gente che conosco di solito resta. Fuggo perché sono anche un vigliacco. Rimanere al mio posto significherebbe ammettere troppe cose. Quanto al tornare, si comincia a farlo dal momento in cui si parte.

La banalità del nostro quotidiano può essere squarciata dall’imprevisto. E questo imprevisto è tanto più inquietante, nella misura in cui è nascosto, quasi mimetizzato, tra le pieghe della nostra vita. Allora, da una piccola abrasione, nasce un abisso di orrore, tanto più terribile quanto più inconoscibile. Spesso, nelle tue storie, vai in cerca di queste piccole abrasioni per poi narrare, direi quasi, lo sbigottimento, la solitudine di fronte ad un destino indecifrabile. Forse questo orrore che nasce dal quotidiano è una sorta di condanna? Una sorta di pena alla quale dobbiamo soggiacere?
Certo. Quest’angoscia che ci accompagna, questa sbarra che percuote le catene, fa parte di noi. Le catene siamo noi, forse.

E veniamo ai luoghi, alla terra, alle case, alle chiese, alle pietre. La tua scrittura è legata alla tua terra. Lo proclami tu stesso. La tua è una Liguria di rocce, di salite, di muretti, di luci che improvvisamente illuminano zone buie per poi altrettanto improvvisamente spegnersi. Quanto conta, per chi scrive, la propria terra? Esiste un punto d’equilibrio fra l’amore e l’odio che si possono provare per le proprie radici?
Il paesaggio come compensazione, diceva Biamonti. A me, che lo abbandono, potrei aggiungere, come restituzione. Credo di sì. Anche il territorio è quella catena. Le mie radici sono nella terra spinosa e pietrosa, nell’aria azzurra degli ulivi, sempre troppo minerali.

La Liguria che descrivi è a volte una terra di confine, una terra che parla di se stessa, ma presuppone anche altri orizzonti, altre terre. Ci sono confini che attraversiamo e confini che ci attraversano. Un confine può dividere o può anche unire?
Un confine e una frontiera, distingue Giorgio Bertone. Qualcosa che pulsa e non sai dove sia, ma anche qualcosa che all’improvviso è dentro o fuori.
La mia frontiera, quella ligure, è piuttosto quella che sta tra entroterra e riviera, e mi riporta ai giorni faticosi in cui disertavo i pomeriggi di lavoro in campagna per fare il ligure di scoglio, il Marino “marino”, ecco, quello al mare, della risata. La ferita era in quello sguardo di mio padre. Era necessaria. Era lì che perdevo già.

sabato 5 giugno 2010

Oggi parlo qui

CONVEGNO SOLDINI
Sabato 5 giugno 2010
Sala Pessini
 Piazza Vittorio Veneto - Castelnuovo Scrivia

Tra giornalismo e letteratura. Pier Angelo SOLDINI e la cultura
del secondo Novecento

PROGRAMMA

Ø    Ore 09:00 : Accoglienza e consegna delle cartelline con il programma.
Ø    Ore 09:15 : Saluto delle Autorità.
Ø    Ore 09:30 – 11:30 : Interventi di Franco CONTORBIA (Università di Genova) e Andrea AVETO e di Clelia MARTIGNONI (Università di Pavia) e Chiara LUNGO.
Ø    Ore 11:30 : Comunicazione della locale Scuola Media.
Ø    Ore 12:00 : Intervento di Franca LAVEZZI (Università di Pavia).
Ø    Ore 12:30 : Rinfresco presso i saloni del Castello Podestarile in Piazza Vittorio Emanuele.
Ø    Ore 14:30 : Intervento di Roberto CICALA (Edizioni Interlinea e docente all’Università Cattolica).
Ø    Ore 15:00 : Intervento di Antonello BRUNETTI (studioso di storia locale).
Ø    Ore 15:30 : Intervento di Marco FRANCESCHETTI  (nipote di Pier Angelo Soldini).
Ø    Ore 15:45 : Coffee Break.
Ø    Ore 16:15 : Intervento di Angelo RICCI  (Scrittore).
Ø    Ore 16:30 : Intervento di Chiara LOMBARDI (Università di Torino).
Ø    Ore 17:00 : Intervento di Brunello VESCOVI  (“La Stampa”).
Ø    Ore 17:30 : Conclusioni: Giusi BALDISSONE (Università del Piemonte orientale).
Ø    Ore 21:00 : Concerto lirico degli “Ensemble musica e bel canto” presso i saloni del Castello Podestarile in Piazza Vittorio Emanuele.

Coordinatore e responsabile : Roberto Carlo DELCONTE, Presidente della Biblioteca Comunale “Pier Angelo Soldini”.

Successivamente verranno raccolti gli interventi del Convegno e pubblicati in un apposito volume inserito nella Collana “I Quaderni della Biblioteca”.

venerdì 4 giugno 2010

Premio Letterario Tracce di Territorio. Ecco i vincitori della VI edizione

Il Premio Letterario Nazionale Tracce di Territorio, organizzato da Rotary Club Cairoli, Associazione Tracce di Territorio e Provincia di Pavia, con ILPRA GROUP come main sponsor è arrivato quest’anno alla sua VI edizione. Prosegue quindi la sua opera di vera e propria monitorizzazione della produzione editoriale italiana dedicata alle innumerevoli territorialità della penisola.
Territorio inteso non in senso asetticamente descrittivo, ma territorio inteso come luogo di nascita e di confronto, luogo di sentimenti, luogo di ibridazioni narrative, linguistiche, luogo di espressività artistiche.
Non a caso il Tracce di Territorio si suddivide in tre sezioni: la “Riccardo Bacchelli” per la narrativa, la “Cesare Cantù” per la saggistica storica e la “Narrare con l’immagine” per i libri fotografici.
Importante è poi la presenza degli studenti che formano la Giuria Popolare e che hanno il compito di giudicare i libri fotografici. Un modo questo di avvicinare i giovani alla lettura in modo non passivo ma responsabilizzandoli nella valutazione di un’opera.
Anche per questa edizione sono state moltissime le opere pervenute.
Questa è la decisione della Giuria Letteraria, coordinata da Mino Milani e composta da Tino Cobianchi,  Bianca Garavelli, Giuseppe Polimeni, Paolo Pulina, Angelo Ricci e Gian Battista Ricci:

SEZIONE RICCARDO BACCHELLI (NARRATIVA)
VINCITORE
Non rimpiango, non lacrimo, non chiamo di Marino Magliani e Vincenzo Pardini (Transeuropa)
MENZIONE SPECIALE
Perché no, di Cristina Zagaria (Perdisa Pop)

SEZIONE CESARE CANTU’ (SAGGISTICA STORICA)
VINCITORE
I sapori della Terra di Mezzo, di Michele Marziani (Guido Tommasi Editore)

Questa è la decisione della Giuria Popolare, formata da studenti degli istituti Omodeo e Pollini di Mortara e Caramuel e Casale di Vigevano:

SEZIONE NARRARE CON L’IMMAGINE (LIBRI FOTOGRAFICI)
VINCITORE
Di terra e di pietra (L’architettura rurale nel paesaggio della provincia di Rieti) di Roberto Lorenzetti (Anthelios)

Le centinaia di volumi che sono state inviate a questa edizione del premio, verranno, come sempre, donate a biblioteche pubbliche. Un modo questo per far sì che i libri possano continuare a vivere.
La cerimonia di premiazione si terrà sabato 12 giugno, alle ore 17, a Palazzo del Moro, in Mortara (PV).

Per informazioni:

mercoledì 2 giugno 2010

Gli incendiati, di Antonio Moresco (Mondadori)

Una Via Crucis della sofferenza unisce i luoghi più significativi della storia dell'umanità. La guerra e la morte regnano sovrane incontrastate in un mondo dove la violenza è la più comune merce di scambio. E il fatto che la guerra e la violenza ci si presentino in ogni istante delle nostre vite, attraverso i messaggi ripetitivi del villaggio globale, non fa venire meno la loro potenza distruttiva. Semmai, proprio attraverso l'assuefazione, la amplificano rendendola più perniciosa ancora. Antonio Moresco prende tra le mani gli stilemi di un apparente noir, subito però immergendoli nella descrittività onirica di un incubo. Tutto ciò che rappresentiamo, tutto ciò che siamo (le nostre anime, i nostri sentimenti, le nostre paure, i nostri corpi, le nostre deiezioni), viene messo in mostra quasi in modo osceno, attraverso un piano stilistico che ci accompagna lentamente, ma inesorabilmente, verso l'orrore. La stessa attrazione fra i due personaggi principali (attrazione fisica, sessuale, carnale in un modo pesantemente assoluto) non ne è che l'anticamera.
E' un vero e proprio Trionfo della morte di bruegeliane fattezze quello che Moresco ci fa letteralmente scoppiare davanti agli occhi. Una Via Crucis simbolica e onirica le cui stazioni (altrettanto simboliche e oniriche) sono Slovenia, Croazia, Sarajevo, Cecenia, Ossezia. Una babele terribile di parlate slave, di donne schiave, di mafiosi russi, di orrori, di morti viventi e di vivi morenti. Tutto l'immaginario della violenza, così come ci piace (sì, ci piace) vedere e sentire. Tutto il clamore di quell'orrore che arriva dai conflitti sanguinosi e sanguinari dell'est dell'Europa, ormai assurto a simbolo della violenza e della sopraffazione cieca e senza giustificazione alcuna, se mai violenza e sopraffazione possano averne una, assume qui la definizione simbolica della morte. Solo il fuoco potrà mondarci. Solo le fiamme potranno, forse, avere ragione dello strame e della morchia del mondo. Antonio Moresco, come un profeta biblico, ha avuto la fugace, ma potente, visione di un inferno laico. Non credo che lo ascolteranno.
Un libro.
Gli incendiati, di Antonio Moresco (Mondadori).

martedì 1 giugno 2010

La Stanza dei Libri di Elisa recensisce "Notte di nebbia in pianura" (Manni Editori)


Svetlana guardò di nuovo fuori. La nebbia era fitta. Come in Russia. Come in Polonia. Come in Ungheria. Come in Slovenia prima del confine.
La pianura, nell’immaginario narrativo dello scrittore piemontese Angelo Ricci, si trasforma in un luogo impossibile a definirsi, misterioso e privo di confini tangibili, dove la realtà si dilata fino a raggiungere il regno dell’assurdo pur mantenendo un aspetto apparentemente normale. Infatti, per quanto la narrazione non arrivi mai a dimensioni tradizionalmente fantastiche, si snoda lungo uno sfondo surreale, onirico, ritmato da luoghi, voci narranti e piani temporali alternati o sovrapposti, da memorie evocative, stralci di ricordi e momenti in tempo reale.
Notte di nebbia in pianura non è un racconto e non è un romanzo, trasmette la tensione di un noir ma non si può definire tale, possiede un certo realismo descrittivo, arriva a toccare i toni dell’introspezione psicologica e la trama è indubbiamente drammatica, ma con quella sottile ironia, ora malinconica ora grottesca, presente in ogni pagina, riuscirà ad affascinarvi.
La storia, o meglio, la serie di storie intrecciatesi nel gelo di una notte invernale in una città di pianura resa invisibile, e irriconoscibile, dalla nebbia, scorrono con una limpidezza cinematografica, i dettagli e gli attimi più insignificanti, volutamente enfatizzati, assumono aspetti inquietanti e disperati, colti nelle vite dei protagonisti che, se singolarmente possono sembrare prive di senso, rivelano nell’incrocio dei loro destini la forza dell’inevitabile, della tragedia, di un consumarsi quasi sacrificale che spesso, o forse sempre, appartiene al senso dell’esistenza umana. La morte è una presenza ricorrente, la sofferenza è la condizione di un degrado in parte derivato da una scelta, il compromesso è un mezzo per sopravvivere, la trasgressione uno stile di vita.
I protagonisti non si incontrano mai direttamente, le loro vicende appaiono chiuse in sé stesse, se, casualmente, le loro vite separate arrivano a sfiorarsi, lo fanno a distanza, inavvertitamente, senza lasciare traccia né ricordo tra di essi. Ma nel breve spazio di una notte, la sorte lancia i dadi, trova le loro storie presenti e passate e, in poche ore, unisce, divide, distrugge, frantuma, uccide. E da lontano, oltre la disfatta finale, niente altro è visibile se non tenebre e nebbia.