mercoledì 21 marzo 2012

L'ultimo uomo nella torre, di Aravind Adiga (Einaudi)

Da sempre, nel divenire della percezione che l’umanità ha di se stessa, il rapporto fra microcosmo e macrocosmo rappresenta una costante che ha attraversato i tempi. La parte, spesso, altro non è se non il significato (e il significante) del tutto.
L’immagine stessa di un qualsiasi condominio, immagine che incontriamo tutti i giorni, non fa che rimandarci alla domanda eterna che si pone tra noi, casuali osservatori, e l’intreccio delle esistenze che in quel condominio abitano.
E come da piccoli ci capitava di guardare estasiati il fremere di un formicaio, così quella stessa parola, formicaio, ben si adatta all’agitarsi dei destini che in un condominio convivono.
Aravind Adiga ha scrutato con attenzione da entomologo in quell’agitarsi di destini e ha dato una risposta a quella eterna domanda: sì, noi esseri umani viviamo in un formicaio e, come in un formicaio, le nostre azioni sono il risultato matematico di quella terribile legge di natura che assicura la sopravvivenza al più forte.
Anche un altro condominio letterario (Palazzo Yacoubian, di ‘Ala Al-Aswani) racchiudeva in sé le vite dei suoi personaggi. Ma in Palazzo Yacoubian la struttura universo dei muri e dei mattoni in qualche modo rimaneva a guardia di una possibilità di futura redenzione.
In L’ultimo uomo nella torre è proprio questa struttura universo, composta da muri e mattoni, vite e destini, ad essere protagonista e a diventare oggetto di una lenta, inesorabile e terribile conquista. 
L’edificio letterario dalle affascinanti complessità dickensiane che Aravind Adiga costruisce, si pone esso stesso come simbolo dell'edificio al centro del romanzo (la Torre A, del Vishram Society) e, mentre le parole stanno innalzando la struttura della storia, quelle stesse parole mettono in scena l’inesorabile avvicinarsi della demolizione di quell’altra struttura, l’insieme inscindibile di muri e mattoni, vite e destini.
E il vertice della narrazione, la costruzione creata dalle parole, rappresenterà proprio la fine della costruzione fatta di muri e mattoni, nel preciso momento in cui il microcosmo delle vite e dei destini degli abitanti del condominio si sarà simbioticamente unito al macrocosmo dell’avidità, dell’ipocrisia e della morte.
L’orrore (ma un orrore banale, quotidiano, un orrore che nasce dalle piccole cose e dai piccoli gesti e, per questo, ancor più terribile) si sarà allora definitivamente incuneato nel mondo, passando dalle anime alle pietre e viceversa, in un rapporto di sinallagmatica crudeltà.
La demolizione sarà così compiuta. Resteranno le parole di un Autore che ha saputo raccontarci una storia trasfiguratasi efficacemente in paradigma della cupidigia umana.
Un libro.
L’ultimo uomo nella torre, di Aravind Adiga (Einaudi).

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