giovedì 5 luglio 2012

Viali dell'indipendenza, di Krzysztof Varga

Recensione di Giovanni Agnoloni
da Postpopuli.it

Gli antichi aedi cantavano le gesta eroiche con una cetra. E cantavano pure i trovatori medievali, celebrando donne e cavalieri.Krzysztof Varga, in Viali dell’indipendenza (ed. Nikita) non canta, ma lascia decantare e poi declama, sgranandole quasi come i grani di un rosario pagano, le deprimenti vicissitudini di un individuo che è fin dal nome un ossimoro vivente: Krystian Apostata, un artista un tempo promettente, poi sostanzialmente fallito, che trascina i suoi giorni annoiati e stanchi affogando la sua frustrazione nell’alcol e nella pornografia, e incrocia più o meno ad ogni piè sospinto l’amico dei tempi della scuola, Jakub Fidelis. Questi, il suo alter ego, al contrario di lui ha imparato a strizzar l’occhio alle mode e si è fatto strada nella danza, nella TV e sui rotocalchi, dicendo la sua su ogni argomento e venendo considerato un’autorità in materia di “tuttologia”.
Apostata e Fidelis, due nomi che sono dei simboli, come l’autore ha sottolineato in occasione della sua recente presentazione fiorentina insieme al traduttore Leonardo Masi. E due simboli, aggiungo, che si declinano insieme come un inevitabile, quasi kharmico binomio, sullo sfondo di unaVarsavia prima schiacciata dal comunismo, poi (ancora una volta, dopo la seconda guerra mondiale, ma metaforicamente) rasa al suolo dall’assenza di qualunque sensibilità umana tipica della cultura di massa, che tutto omologa e nulla risparmia.
Impareggiabile, la tristezza di questa capitale dell’Est, nelle righe di un autore che, nonostante l’inizio-shock (sappiamo fin da subito che Apostata morirà in volo, viaggiando verso New York), sa dare alla sua narrazione una cadenza andante-animata da cui, oltre alle venature ironiche e a tratti spassose, emerge un innegabile retrogusto romantico, dalle tinte nostalgiche.
Una lettura che a tratti sembra non portare da nessuna parte. Se non che, il punto è proprio questo. Non c’è un dove da raggiungere, e anche il qui e ora sembra ormai essersi ridotto all’osso.
Colpa dei tempi, forse. Varga ce li dipinge così.

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