martedì 4 settembre 2012

92 Giorni, di Larry Brown (Mattioli 1885)

C’è un rapporto stretto, drammatico, quasi placentare fra chi narra la sofferenza di chi scrive e chi, appunto, scrive. L’atto stesso del raccontare e del raccontarsi vive di angoscia, di afflizione, specialmente nel condiviso divenire dell’incertezza di un accoglimento da parte di chi, l’editore, è arbitro insindacabile di approvazione.
Tanti, quasi infiniti, sono i romanzi che hanno per oggetto questa angoscia, questa afflizione, questa dolce e terrificante sofferenza. Come non pensare al John Fante di Chiedi alla polvere o a quel monumento assoluto dell’avventura totalizzante dello scrittore che è il Martin Eden di Jack London.
92 Giorni, di Larry Brown, rappresenta un’altra solida pietra che va ad aggiungersi a quelle che hanno, nel tempo, costruito quel compatto edificio innalzato con il racconto delle vicende di chi cerca, pur annaspando nell’incertezza della vita, di rimanere con disperazione ancorato alla convinzione delle parole che scrive.
92 Giorni non è l’epifania sicura del futuro successo letterario che talvolta troviamo nella certezza di certi scritti di Hemingway o di Henry Miller, no. 92 Giorni porta in sé il peccato originale di quel tranquillo sconforto che tanta parte ha in certe pagine di Carver, di Bukowski, di Brautigan.
Una narrazione affilata che non lascia spazio al superfluo, all’inutile, ma che invece guarda senza timore alcuno in quell’abisso di fallimento e di entusiasmo che costituisce, deve costituire, il necessario nesso causale che porta chi scrive ad essere comunque parte del mondo, ma di quella parte che lotta per non subire, di quella parte che lotta semplicemente per raccontare.
Consigliato assolutamente a tutti coloro i quali hanno un libro nel cassetto.
Un libro.
92 Giorni, di Larry Brown (Mattioli 1885).

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