lunedì 5 novembre 2012

Daniele Pugliese rivisita un celebre racconto di Arthur Schnitzler

di Giovanni Agnoloni
da Postpopuli.it
Daniele Pugliese, giornalista, storico e scrittore, è autore di un libro molto interessante, Io la salvero, signorina Else (ed. Portaparole), nel quale rivisita liberamente la vicenda del noto racconto dello scrittore austriaco Arthur Schnitzler (1862-1931) La signorina Else, nel quale si racconta la vicenda di una giovane che, pur di non cedere alle lusinghe sessuali di un uomo, disposto a darle i soldi di cui suo padre ha urgente bisogno, a patto di vederla  nuda, preferisce il suicidio. Ripercorro qui le linee dell’opera in un’intervista gentilmente concessami dall’autore a margine della recente presentazione fiorentina.
- “Io la salverò, signorina Else” è un’opera letteraria in cui convergono diversi livelli di scrittura (e dunque di lettura), narrativi, psicologici e filosofici. Quanta parte di lei, come autore e come uomo, è presente nelle sue pagine?
Come autore direi che ci sono al cento per cento in ognuna delle pagine, anche se, prendendo spunto da un capolavoro dell’autore austriaco, la presenza di Schnitzler è ingombrante: l’editore però ha detto che i diritti di autore li pagherà a me, non ai suoi eredi, e sono dispiaciuto di non poter chiedere una percentuale su quelli che dovessero derivare da una indiretta pubblicità da parte mia al libro originale che, garantisco, è da leggere. Come uomo solo un pezzo. Ovviamente ci ho portato dentro qualcosa di me, di quello che so o di quello che sento e ho sentito, ma un’altra grande fetta è rimasta fuori per lasciar spazio alla signorina Else. È quella ragazza di diciannove anni che si toglie la vita nel 1924 in quel crogiuolo di culture e idee che è stata la Felix Austria che merita spazio, ascolto, comprensione, anche perché sono convinto che dica qualcosa a tutti noi: maschi o femmine, giovani o vecchi, ricchi o poveri.
- Una sottolineatura che mi ha molto colpito è quella della necessità di un senso di responsabilità individuale, scevro però da sensi di colpa. In qualche modo, occuparsi degli altri (come Else vorrebbe fare con suo padre) non significa “portare il loro peso”. Personalmente sono d’accordo, ma sto cercando di capire: se non questo, allora che cosa significa?
Che diamine di modo di “portare pesi” è quello di restarne schiacciati? Chi si affiderebbe a una tavola di legno marcia e fradicia per attraversare un precipizio? Mi viene in mente quella splendida frase di Tolstoj che più o meno dice: «Sto seduto sulle spalle di un gigante e giuro di volerlo aiutare in ogni modo, tranne quello di scendere». Spesso facciamo così e non è grave farlo: è grave non rendersene conto. Grave, gravoso, pesante. Per sé e per il supporto. Il mio non è un invito all’indifferenza o a una rinuncia, ancor più grande di quella a cui già assistiamo purtroppo, alla solidarietà, all’accudimento, al prendersi cura. Il mio è un invito a farlo facendosi qualche domanda e dandosi qualche risposta. Cioè, appunto, ad essere responsabili dei propri atti, delle proprie parole, dei propri pensieri. Sa quelle storie di «Mi hanno intestato un attico ai Parioli, ma a mia insaputa». Oppure: «L’ho massacrata di botte ma l’amavo». Spero di essermi spiegato. Una sola aggiunta. I sensi di colpa non sono la consapevolezza della responsabilità, sono solo, come dire, la beffa dopo il danno, o un’aggiunta di peso al peso già gravato. «Sto seduto sulle spalle di un gigante e lo cospargo anche di lacrime!»
- La temperie culturale dell’Impero Asburgico ormai decadente trapela dalle righe del suo libro come dal racconto di Schnitzler che lo ha ispirato. Quanto questo sfondo collima con il presente dell’Italia? Quante “signorine Else” del mondo di oggi potrebbero raccogliere il messaggio del “salvatore” che cerca di impedire il “suicidio”?
In Cacania, così Musil ci dice si chiamava l’Impero Asburgico, quel senso di decadenza era andato molto oltre e si era spinto alle soglie della paura della fine del mondo. Schnitzler nega di aderire a questo piagnisteo, dice di limitarsi a guardar chi gli sta intorno senza tante moine e salamelecchi. Anche il nostro orizzonte appare incerto e offuscato e si scomodano i Maya stavolta per dire che siamo sull’orlo del baratro. Non ho sfere di cristallo e diffido di chi ne fa mostra. E questo sarà l’argomento di un libro che sto per pubblicare. Ma il disincanto di Schnitzler o di altri “cinici” come lui – di un Epicuro, di un Hobbes, di un Gramsci per citarne qualcuno – mi pare salutare in qualsiasi epoca e ad ogni latitudine, anche oggi qui in Italia. Si paga dei prezzi per quel “realismo”, ma se no che consapevolezza è? Quanto alle statistiche riguardo alle attuali signorine Else e alle loro possibilità di salvezza, devo dire che la Borsa e lo spread ci hanno purtroppo abituato a fidarci poco dei numeri, i quali non hanno colpa, come se la matematica fosse un fondo di caffè o le interiora di un agnello sacrificato. Però lo ripeto: se il salvatore della signorina suggerisce di dialogare ed essere un po’ più coscienti, proviamo, ieri o oggi e magari anche domani: male non fa.

Daniele Pugliese (da www.danielepugliese.it)
- Una massima che si trova nel libro è: “La vita umana è gioco”. Vuol essere un’affermazione paradossale o è una presa di coscienza della paradossalità dell’esistenza, non molto diversamente, in fondo, dalla situazione dello scarafaggio di kafkiana memoria?
La sensazione che ho ricevuto io leggendo il capolavoro di Kafka non è quella della paradossalità dell’esistenza, semmai della sua tragicità. Ma per rispondere alla domanda direi che è il secondo significato quello che io ho voluto dare. Più precisamente ho tentato di mettere in luce la convinzione che l’esistenza abbia, come i giochi, le sue regole e che queste, volendo giocare, vadano rispettate; ma anche un mio sospetto: che sia tutto quanto da prendere meno sul serio di quanto ho fatto finora. Un po’ più per gioco.
- In fondo, consonante col tema del gioco è quello della “possibilità”, com’è giustamente stato sottolineato nel corso della presentazione fiorentina dal relatore, il Prof. Roberto Venuti. Un riferimento in cui lui ha finemente colto venature “alla Musil”, citandone, come parallelo moderno un film abbastanza recente come “Sliding Doors”. Ma nella vita abbiamo veramente una scelta? La vicenda della signorina Else è la dimostrazione di come in fondo esiste un destino immutabile? O invece il dialogo, non solo interiore ma con l’altro, è sempre indice rivelatore di una nuova possibilità?
Il professor Venuti, illustre germanista che ho avuto il piacere di conoscere solo alla presentazione del mio libro a Firenze, è stato troppo buono con me e questo mi mette in imbarazzo, anche perché se c’è un libro che io salverei dall’apocalisse prossima ventura è L’uomo senza qualità. Certo, svelando da critico quello di cui io, scrivendo la novella, non potevo accorgermi, vale a dire l’enfasi data al tema della “possibilità”, Venuti mi ha colto con le mani nella marmellata ed io devo prendermi la mia responsabilità. È vero, è argomento su cui mi arrovello. In definitiva, ripromettendomi di salvarla, alla signorina Else do una possibilità. Ne do una al lettore della storia originale e forse, per certi versi, anche a Schnitzler, ingiustamente accusato di oscenità dai suoi contemporanei. Lei mi chiede se nella vita abbiamo veramente una scelta e la mia risposta, più che opinabile ovviamente, è senz’altro sì: all’incirca ogni 30 secondi. Ma quale destino immutabile! Questo non significa che qualche spada di Damocle non sia sulla nostra testa: si decide più a Wall Street cosa mangeremo stasera per cena che non a Montecitorio, purtroppo, ma nemmeno provarci ad avere governanti migliori è come prendere il Veronal della signorina Else. Servirà a poco, ma almeno, come diceva un grande poeta, alla fine uno potrà dire: confesso, ho vissuto.

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