giovedì 29 novembre 2012

Nessuno è indispensabile, di Peppe Fiore (Einaudi)

Tre sono le cose che si affacciano alla mia memoria dopo la lettura di Nessuno è indispensabile. La prima è un aneddoto, la seconda è il tempo, la terza è il linguaggio.
L’aneddoto. Paolo villaggio racconta che nel 1975 Evtushenko, in risposta alla domanda su quali fossero gli scrittori italiani che più venivano letti in Unione Sovietica, disse che proprio Villaggio, creatore di Fantozzi, era molto seguito e considerato come una sorta di successore di Gogol e che Fantozzi rappresentava la figura ideale del lavoratore inghiottito da un sistema capitalistico in bilico tra sfruttamento parossistico e angosciante nonsense.
Il tempo. Decenni sono trascorsi dalle atmosfere del romanzo industriale, decenni che sembrano secoli. Paolo Volponi rimane nei cataloghi come rappresentante di una narrazione che si incardinava in un tempo che non è più. Ottiero Ottieri prendeva spunto dalla sua vita lavorativa aziendale e partoriva Donnarumma all’assalto. Gli esperimenti editorial-comunitari di Adriano Olivetti sembrano retaggi più che di un passato, di una preistoria.
La struttura fabbrica-sindacato-lavoratori-lotta appare oggi semmai come una divagazione assiomatica che forse ha avuto una sua dimostrazione, dimostrazione travolta dalle mutazioni profonde di una collettività che a quei tempi si poteva ancora definire società.
I personaggi (impiegati, donne e uomini, ridotti quasi ad eteree ombre dal peso schiacciante di una vita di plastica) che si muovono immersi nella scenografia postmoderna di questa Roma periferica che fa da sfondo al romanzo di Peppe Fiore e che ricorda certi angoscianti biancori architettonici de La decima vittima di Elio Petri, non appaiono nemmeno più come simulacri di un mondo in declino, bensì come proiezioni di una cultura dominante che raccatta parole d’ordine televisive, sfiancamenti internettiani e affabulazioni da workshop aziendale (che non è nemmeno più soltanto fine a se stesso) e che crea una sorta di feedback negativo tra vite sbrecciate e lavoro senza senso.
Il linguaggio. È il linguaggio uno dei punti di forza di Nessuno è indispensabile. Una parlata, una sorta di gergo dalle sfumature infinitesimali e per nulla dialettale, ma consono a quell’espressività che mescola vita e azienda e che per imperscrutabili motivi rifugge dal vernacolo per approdare a costruzioni semantiche e sintattiche da verbale di polizia o da circolare esplicativa ministeriale (quel termine: “docciato”… così angosciosamente asettico nella sua terribile condivisione). Ed è questa parlata che trasmette al lettore quel costante senso di straniamento che, alla fine, avrà come unico sbocco il delirio più ancora della morte.
Fantozzi, Filini, la Signorina Silvani esistono ancora. Ma sono diventati cattivi, pericolosi e vagano ormai senza speranza tra le rovine del mondo, come i morti viventi di un film di George Romero.
Un libro.
Nessuno è indispensabile, di Peppe Fiore (Einaudi).

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