martedì 17 settembre 2013

Il ragazzo che credeva in Dio, di Vito Bruno (Fazi)

Un turbinio di parole: franche, lucide, definitive. Un ritmo febbricitante. Un’ansia soffocante come soffocanti sono il vento, il caldo e la polvere di una torrida estate.
Una storia. Una storia antica che si veste delle meschinità e degli eroismi dei contemporanei. Una città. Una città di pietra e di ferro. Una città di uomini e di donne che, nonostante tutto, vivono. Una città che è Taranto, paradigma inquietante di sofferenze di inquinamento e di morte e che solo ora sono dominio della vulgata giornalistica. Una città che è prodromo di una campagna di sassi, di alberi. Una campagna che è scrigno tuttavia di dolci ricordi.
Un uomo: un prete. Una donna: un’immigrata, una prostituta.
Vito Bruno ci accompagna attraverso la crisi umana di un sacerdote, che diviene simbolo delle nostre contraddizioni e delle nostre ipocrisie.
Per ognuno di noi c’è comunque un rifugio. È sufficiente cercarlo. È sufficiente volerlo. Anche attraverso il dolore e la sofferenza.
Come dice Alena, la protagonista: “Voglio tornare a casa.”
Un libro.
Il ragazzo che credeva in Dio, di Vito Bruno (Fazi).

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