martedì 8 aprile 2014

Il figlio, di Philipp Meyer (Einaudi)

Una narrazione che trapassa i tempi della storia, dispiegandosi  tra brani di prigionie efferate, di presenti che sono il necessario e tragico frutto di passati di morte e di sopraffazione, di futuri appena delineati, ma nei quali già si legge, come si leggerebbe sulle linee della mano di un artefice annunciatore di eventi secolari, poste all’attenzione di una chiromante spietata, quello che diverrà necessariamente il presente.
Odissea di una frontiera che si è trasfigurata nel tempo, come trasfigurata si è la definizione ultima di quell’America, gli Stati Uniti, che, come la parte per il tutto, è divenuta luogo di immaginari che si sono trasformati nell’immaginario collettivo di un occidente che prosegue la sua marcia sulle rovine di imperi che seminano, a loro volta, altri imperi ancora, i quali, abbandonata loro malgrado la forza della conquista territoriale, sono divenuti simulacri governati dalla forza eterna del potere della ricchezza e del danaro.
Territorio estremo di definizioni e di vicende che si intrecciano e si inseguono, luogo di quel racconto eterno che si converte in vettore del resoconto di un’umanità contemporanea fotografata nella sua visione di ferocia forse atavica, quel Texas, che è qui protagonista con i suoi deserti di pascolo e di petrolio, è il fine ultimo di quella conquista che ha come oggetto ricchezze e schiavi e che da sempre rappresenta il bottino anelato da ogni banda di predoni che sia riuscita con audacia a trasformare se stessa in stato, in regno, in impero capace di porsi all’attenzione della storia dell’umanità.
Posizioni massime di protagonisti che sono al contempo artefici e merce di scambio di quella dichiarazione di potere che governa il mondo, si alternano a eventi in cui l’anima si fa trafiggere dalla storia politica ed economica e quella stessa storia diventa carnefice di anime, di quelle anime che hanno il potere di essere anche vittime forse di se stesse. 
L'apparire prodromico di un imperialismo che diverrà mondiale è raccontato anche attraverso le note e i rimandi a citazioni letterarie, televisive e filmiche, ricordando piccoli eventi che sono poi anche confluiti nella cultura pop, racconto e condivisione totalizzante della narrazione bicentenaria di una nazione che è diventata essa stessa icona pop nel bene e nel male e che non può non ricordarci altre testimonianze della sua autoanalisi collettiva come quel magistrale affresco tolstoiano che è stato Nashville di Altman o Soldato bluUn uomo, oggi, con quel Paul Newman intellettuale alla deriva che nei Settanta diventa commentatore di una radio di estrema destra, nel profondo sud ancora una volta ammantato di reminiscenze confederate e razziste alla George Wallace.
Echi di complotti ellroiani (quel Lyndon B. Johnson in cerca di elezione al Senato, già ombra e fantasma di cospirazioni alla Cointelpro anti-kennedyane) si fondono con le epopee di una prateria di morte, sofferenza e forse di resurrezione, aperta a quella contemporaneità di deserti acidi che saranno nel divenire letterario il tragico palcoscenico di morti estreme bolaňiane, a loro volta interpreti di mutazioni continentali dove all’anglos crudele si sostiturà un mix di potere texmex forse ancor più sanguinario.
Una frase varrà a definire questo grande dipinto che appare come creato da un Bruegel o da un Bosch ammantati nella bandiera della croce del sud: Ricordava un sermone in cui il pastore aveva nominato alcune persone interessanti che potevi incontrare in paradiso: Martin Luther King (per i neri), il Mahatma Gandhi, Ronald Reagan.
Un libro.
Il figlio, di Philipp Meyer (Einaudi).

Nessun commento: