martedì 2 dicembre 2014

La cresta dell'onda, di Thomas Pynchon (Einaudi)

Era il 1989 quando, venticinquenne di belle speranze, mi avventurai al 
Salone del libro di Torino in cerca di importatori di riviste e libri americani che avevo trovato su misteriose e misteriche fanzine. Non c’era ancora internet e la vulgata sottotraccia che avrebbe poi portato al deep web si manifestava attraverso file cartacei semiclandestini che riportavano notizie seminascoste di deliranti universi letterari e di orrore. Fu lì che scoprii i postmoderni e, of course, il buon vecchio Thomas Pynchon. 
È passato un quarto di secolo e Pynchon, come il Meatball Mulligan, il personaggio del racconto Entropia, cerca ancora di portare ordine in quella fuga di energia universale che è costante letteraria e cosmica. Ogni galassia ha nel suo centro un buco nero e quel footjob che la eroticamente definitiva Maxine Tarnow elargisce con indifferente voluttà all’hacker di turno è forse il buco nero di questa galassia piena di paesaggi nuovayorchesi post 11 settembre e di "Scuole di Panama" (ora "Istituto dell'emisfero occidentale per la cooperazione alla sicurezza") fucine di addestramento alla tortura per consiglieri militari USA destinati al mantenimento dell'ordine costituito nel centro e sudamericano yankee backyard. Pynchon descrive luoghi molto snuff, dulcet, gore e kinky, estrapolazioni di abissi digitali, dove la crittografia la fa da padrona, in una danse macabre di siti nascosti, di file obsoleti, di livelli di un presunto orrore che forse è l’orrore dell’infinitamente piccolo che si espande verso l’infinitamente grande. La cresta dell’onda è il punto di arrivo di ostensioni esoteriche, già mostrate in passato dall'Autore a quell’universo dei lettori dove forse, come in un magico Tempo di Plank, è la stessa loro osservazione a mutare il tempo attraverso la linea spaziotemporale dei fotoni. Lussureggianti fighe, (ebbene sì, fighe), navigatrici del tempo, come la pynchoniana V, testimone e forse artefice di massacri di nativi namibiani a cura di truppe coloniali guglielmine o report esaustivi di plastiche facciali, o emascolazioni goliardiche susseguenti a erezioni di ufficiali alleati che, ne L’arcobaleno della gravità, segnano mappe di lanci di missili nazisti, o quella atmosfera ottomana di Rumelia Occidentale che, come in una narrazione steampunk alla Karel Zeman, annunciano l’odore del sangue della Prima Guerra Mondiale in Contro il mondo, altro non sono se non l’affastellamento geniale di un universo tragico che porta appunto sino a quel limitare sanguinante e sanguinoso (Bleeding Edge, appunto) che segna i confini di quei bastioni di Orione dove il phildickiano androide vide le astronavi terrestri in fiamme.
Masse purulente di informazioni albergano celate in quello spazio profondo digitale, pregno di siti occultati e segnati da matrici uterine alfanumeriche, collegate a Tor Browser, a Hidden Wiki, a motori di ricerca censurati sino a quel Mariana’s web di cui la vulgata delirante, e forse a suo modo innovativa, conferma, per la sua indagine, la necessità di un computer quantistico. Quantistico, appunto, cioè libero da legami spaziotemporali, alla ricerca di un universo dove a farla da padrona è quella Linea di Plank (ancora linea, ancora edge) in cui osserviamo il passato del presente nella visione allucinata di un futuro forse lisergico dove esseri eterei si auto procurano fellatio o disegnano altrui mappe di morte. Ed è in questa linea di confine tra la vita e la morte che Thomas Pynchon scrive La cresta dell’onda, consapevole di quello che scriveva Nietzsche: "quando guardi a lungo nell’abisso, l’abisso ti guarda dentro." Lunga vita e prosperità al grande Pynchon, cantore estremo di tempi letterari che sono onda e particella al contempo.
Un libro.
La cresta dell’onda, di Thomas Pynchon (Einaudi).

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